App o no, chi traccerà i contagi ? di Maddalena Innocenti, Chiara Milani, Annamaria Schirripa, Gavino Maciocco

L’Italia rischia di trovarsi impreparata di fronte a una possibile seconda ondata dell’epidemia. C’è un’alternativa a una app partita male e priva di garanzie: il tracciamento vecchia maniera, fatto con le persone.

L’inchiesta epidemiologica è da sempre la misura fondamentale per la prevenzione e il controllo delle malattie infettive. La diagnosi di un “caso” comporta una serie ben nota di interventi:

  1. la ricerca della fonte d’infezione e l’identificazione di altri soggetti che contemporaneamente potrebbero essere stati esposti al rischio.
  2. L’identificazione dei conviventi e dei contatti ovvero i soggetti che hanno avuto rapporti con il malato tali da consentire il contagio.
  3. La sorveglianza attiva sui soggetti del punto 2 che può comportare a seconda delle infezioni l’accertamento diagnostico, l’isolamento, il follow up.

Queste misure, l’abc dell’igiene e della sanità pubblica, – realizzate con l’intervento di tanti operatori che si muovono per il territorio nelle case, nelle scuole, nei luoghi di aggregazione – sono state di fatto ignorate nel corso della pandemia, con l’unica eccezione dell’esperimento, peraltro molto limitato, di Vo’ Euganeo – 3.300 abitanti – ( vedi intervista al Prof. Andrea Crisanti).

Ora ci si prepara alla Fase 2 quando con la ripresa della vita sociale e delle attività produttive si potrebbe verificare una “seconda ondata” dell’epidemia se il sistema sanitario non si attrezza per prevenire l’esplosione di focolai incontrollati di infezione come è successo, soprattutto in Lombardia, nella Fase 1. È allora necessario evitare gli errori del passato. Il punto decisivo riguarda la sorveglianza del contagio: l’identificazione tempestiva dei casi e il contact-tracing senza i quali l’arrivo di una seconda ondata epidemica è pressoché scontato.

Per realizzare il tracciamento dei contatti il Ministero della salute ha puntato finora sul modello sudcoreano che si basa sull’uso massiccio di tamponi e sul tracciamento dei contatti tramite smartphone dotati di app in grado di registrare i contatti delle persone infette. Grazie alla tecnologia bluetooth si potranno tracciare i telefonini che entrano in contatto nel corso di una giornata. E il sistema avviserà le persone che sono entrate in contatto con una persona contagiata.

Si chiamerà Immuni la app italiana per il tracciamento del contagio del nuovo coronavirus durante la Fase 2. Con un’ordinanza del 16 aprile il commissario per l’emergenza Domenico Arcuri ha disposto la stipula del contratto di concessione gratuita della licenza d’uso sul software di contact tracing e di appalto di servizio gratuito con la Bending Spoons spa, la società progettatrice della app. Il sistema di tracciamento digitale sarà utile per contenere e contrastare l’emergenza epidemiologica Covid-19, perché può “aiutare a identificare individui potenzialmente infetti prima che emergano sintomi e, se condotto in modo sufficientemente rapido, può impedire la trasmissione successiva dai casi secondari” si legge sull’ordinanza. L’app si potrà scaricare e installare su telefonini con sistema operativo ios o android. Non sarà obbligatoria e funzionerà grazie all’attivazione del bluetooth.

Il sito del Ministero della salute spiega in maniera molto, troppo stringata il funzionamento del sistema: “I cittadini scaricano l’app e iniziano ad utilizzare l’applicazione che crea un registro dei contatti in cui ci sono tre informazioni:

  1. Qual è il dispositivo con il quale sono stato in contatto.
  2. A che distanza.
  3. Per quanto tempo.

Qualora il soggetto risulti positivo a seguito di un test, l’operatore medico autorizzato dal cittadino positivo, attraverso l’identificativo anonimo dello stesso, fa inviare un input/messaggio di alert per informare tutti quegli utenti identificati in modo anonimo che sono entrati in contatto con lui”.

Niente si dice su a quale livello il sistema viene gestito, se e come si interfaccia con i servizi territoriali. Chi sarebbe l’“operatore medico autorizzato”? Chi conserva la massa di informazioni accumulate? I quesiti sono tanti: riguardano in primo luogo le questioni di privacyma anche di sicurezza nazionale, dato che il Copasir (Comitato Parlamentare per la Sicurezza della Repubblica) è pronto a convocare in audizione Domenico Arcuri per saperne di più sia sull’”architettura societaria” dell’azienda titolare del progetto che sulle “forme scelte” per l’affidamento e “la conseguente gestione dell’applicazione”. Il capogruppo PD alla Camera Graziano Delrio ha affermato che l’introduzione dell’app richiede una discussione parlamentare e l’approvazione di una legge che garantisca “la proprietà e la gestione pubblica dei dati e l’assenza di discriminazioni fra cittadini nel pieno rispetto della privacy“.

Si dice che per funzionare il sistema richiede l’adesione di almeno del 70% della popolazione, obiettivo realistico in Asia, molto meno altrove. In una esperienza precedente lo stesso tipo di contact-tracing era stato testato in Inghilterra nel corso di un’epidemia influenzale (il nome era infatti FluPhone), ma aveva ricevuto meno dell’1% di adesioni .

C’è un’altra opzione per il contact-tracing

Massachusetts

“I paesi asiatici hanno investito pesantemente nel metodo digitale di contact-tracing, che usa la tecnologia per avvisare le persone quando queste sono state esposte al coronavirus. Il Massachusetts sta usando un mezzo vecchia maniera: le persone”. E ha fatto questa scelta perché – si legge in un lungo articolo del New York Times – la sorveglianza digitale è vissuta da molti americani come un’insopportabile intrusione.

Il Massachusetts è il primo Stato USA ad investire in un ambizioso programma di contact-tracing, con un budget di 44 milioni di dollari e l’assunzione di 1.000 operatori. Il programma rappresenta una scommessa da parte del Governatore Charlie Baker: che lo Stato è in grado di identificare precocemente i cluster di infezione e di prevenire l’ulteriore diffusione del virus. Ciò consentirà di ridurre le misure di distanziamento sociale e  far ripartire l’economia. Il programma sarà gestito dalla ONG Partner in Health, un’organizzazione con una vasta esperienza internazionale in paesi poveri e in situazioni epidemiche (ebola, zika, colera). Il tracciamento dei contatti avverrà attraverso interviste telefoniche “one-to-one” dei casi diagnosticati. Il paziente positivo al test sarà contattato entro due ore dal “case investigator” che lo aiuterà a compilare un elenco di soggetti con cui è stato in contatto dalle 48 ore dall’inizio dei sintomi.  I nomi dei contatti – la previsione è di circa 10 per caso – saranno passati ai “contact-tracers” che avvieranno interviste telefoniche ripetute per conoscere non solo l’eventuale insorgenza di sintomi, la loro evoluzione ma anche le possibili difficoltà nell’attuazione della quarantena; in tal caso l’organizzazione interviene con supporti alimentari e abitativi. Secondo il direttore del programma, il medico-antropologo Paul Farmer, nessun intervento di aiuto, per essere efficace, può prescindere da un rapporto umano, da un rapporto di fiducia, che nessuna tecnologia può sostituire.

Irlanda

L’Irlanda con circa 5 milioni di abitanti ha livelli contenuti di contagi (15 mila) e di decessi (608 , al 20 aprile).  Anche qui il contact-tracing si basa sulle risorse umane, con l’arruolamento di più di mille persone provenienti dal settore pubblico, la più grande mobilitazione e il più grande esercizio di riconversione occupazionale nella storia irlandese.

L’intervento è stato diviso in due parti. La prima parte coinvolge circa 200 persone – medici o infermieri – che si occupano delle persone contagiate. La seconda riguarda i contatti, coloro cioè che hanno avuto un rapporto face-to-face entro due metri di distanza della durata di almeno 15 minuti o che hanno condiviso per due ore lo stesso locale; questi saranno rintracciati telefonicamente e seguiti da un esercito di 1.000 persone non necessariamente con formazione sanitaria, adeguatamente formati.

Regno Unito

Nel Regno Unito, a fronte della rapida diffusione del virus, è stato richiesto l’autoisolamento ad anziani e ad altri soggetti particolarmente vulnerabili, per un arco di tempo considerevole, al fine di ridurre i rischi di infezione associati a potenziali effetti negativi sulla salute fisica e mentale. In questo contesto, si inserisce la proposta pubblicata su The Lancet lo scorso 24 marzo a firma di un gruppo di ricercatori di varia estrazione[1](corrispondente: Imperial College, London), per la realizzazione  di un programma d’emergenza su larga scala per formare operatori sanitari di comunità (Community Health Workers – CHWs) con il compito di supportare le persone più vulnerabili, auspicando la possibilità di estendere tale modello di assistenza proattiva, incluso il contact-tracing, a tutta la popolazione del Regno Unito. Le esperienze del Brasile, del Pakistan, dell’Etiopia e di altre nazioni mostrano come interventi coordinati, specifici per gli operatori comunitari, intesi come sentinelle di primo livello e contatto, in rete con gli altri livelli di assistenza, possano fornire servizi sanitari e sociali efficaci su larga scala.

I CHWs, durante le visite effettuate presso le abitazioni di soggetti vulnerabili, potrebbero valutare se i pazienti hanno adeguate scorte di cibo e medicinali, se sono consapevoli delle precauzioni igieniche di base, da praticare per il contenimento del contagio, e se soffrono psicologicamente.

In futuro, tali operatori potrebbero essere coinvolti nell’analisi dei bisogni di salute delle comunità, nel rafforzare la comunicazione e la capillarità degli interventi durante le campagne vaccinali, nel contribuire a gestire le condizioni croniche attraverso un monitoraggio della salute fisica e mentale, verificando la disponibilità e l’uso dei medicinali con una modalità proattiva. I criteri di ammissione per tale lavoro potrebbero includere professioni che forniscono una formazione di base di pronto soccorso e la capacità di intervenire in emergenze mediche, come gli assistenti di volo o la frequenza di un corso di formazione professionale sanitaria, inclusi naturalmente gli studenti di medicina.

Conclusioni

Se nella Fase 1 della pandemia sono stati commessi gravi errori, con gravi conseguenze, (in parte giustificati dall’enorme, inaspettata dimensione dell’attacco viremico), nella ormai prossima Fase 2 tali errori non sono ammissibili, come quello di trovarsi impreparati di fronte a una possibile (per alcuni molto probabile) seconda ondata dell’epidemia. La scelta del modello asiatico per il contact-tracing, senza mettere in campo una soluzione B, quale potrebbe essere quella di un sistema manuale gestito dai servizi territoriali e dai medici di famiglia, desta non poche preoccupazioni, visto l’avvio così incerto e problematico dell’operazione.

La BBC ha dedicato un lungo articolo, molto scettico, alle app per il tracciamento del contagio (Coronavirus: Why are there doubts over contact-tracing apps?). Da cui riportiamo l’osservazione di Jason Bay, l’ideatore dell’app TraceTogether, sviluppata a Singapore:  “Se mi chiedi se un sistema di tracciamento dei contatti Bluetooth implementato o in fase di sviluppo in qualsiasi parte del mondo è pronto a sostituire la contact-tracing manuale, dirò che la risposta è no, non ora e neanche per il prossimo futuro “.

Autrici: Maddalena Innocenti, Chiara Milani, Annamaria Schirripa. Scuola di specializzazione in Igiene e medicina preventiva, Università di Firenze. Gavino Maciocco

Bibliografia
[i] Haines A, Falceto de Barros E, Berlin A, Heymann DL, Harris MJ. National UK programme of community health workers for COVID-19 response. The Lancet March 24 2020 DOI:https://doi.org/10.1016/S0140-6736(20)30735-2

 

fonte: 

Print Friendly, PDF & Email