Gli/le anziani/e sono sempre più al centro del discorso sulla pandemia. Dal numero elevato di morti solitarie, senza gesti e parole di conforto e accompagnamento, alle file delle bare, alle molte espressioni di ricordo, tra le prime del Presidente Mattarella, tra le più recenti, di Papa Francesco. Si rende omaggio alle generazioni dei “nonni”, formate dalla guerra e dalla ricostruzione. Memoria per il futuro.
Questa cura della memoria contrasta però con l’incuria delle vite. Con “la strage dei nonni”, consumata nelle Rsa, con le tante, troppe, morti, neppure ricordate nei numeri, perché sono avvenute nelle case, senza diagnosi. E contrasta con la realistica ammissione che l’età è un requisito negativo, nella decisione su chi attaccare al respiratore. “Già ora siamo costretti a scegliere chi curare.”, scrive Giuseppe Gristina, in una lettera al presidente della Fnomceo, per ribadire le ragioni della SIAARTI (la Società degli anestesisti e rianimatori) nell’adottare “Raccomandazioni di etica clinica”, per l’ammisione o sospensione dei trattamenti intensivi, nella drammatica emergenza della pandemia. Le decisioni sono prese “in pieno accordo con i familiari” precisa Gristina, ed hanno lo scopo di sostenere chi è “in prima linea”, alleggerendo la responsabilità personale, con l’individazione di criteri obiettivi di “giustizia redistributiva e appropriata allocazione di risorse”. Questione complessa, questa del rapporto tra salute individuale e salute pubblica (fra il diritto di ciascuno a essere curato nel migliore dei modi possibile e la finalità di salute pubblica di assicurare la migliore tutela al maggior numero di persone); fra responsabilità personale e l’individuazione di criteri obiettivi, generali, presunti equi. Ed è vero che non riguarda solo l’emergenza, ma la normalità. Ridotta, se non risolta, la carenza dei posti di terapia intensiva, è passata in secondo piano anche la valutazione, non secondaria, su quale organismo possa fornire criteri bioetici per decisioni così dirimenti.
Resta il fatto che la questione è emersa. Chi è anziano ha minori aspettative di vita, sia come guarigione, sia come tempo guadagnato. Nel bilanciamento costi/benefici, la sua vita vale meno della sua morte. Detta così è dura, ma è coerente con il principio di “appropriata allocazione delle risorse”. E aiuta a svelare quanto sia retorica la commemorazione collettiva dei “nostri” nonni.
Se stiamo ai fatti, la pandemia ha prima messo a nudo le carenze di una sanità, basata sugli ospedali, gestiti come aziende anche se pubblici, deprivate di attrezzature, a cominciare dalle più semplici ed indispensabili, con personale sanitario insufficiente e sottopagato. Dopo, ha spalancato le porte delle Case di Assistenza per anziani, abbandonate a se stesse, in tutto e per tutto. Senza criteri minimi di sicurezza e neanche di ragionevolezza: se è vero che in alcune Rsa sono stati trasferiti pazienti contagiati dagli ospedali. Al momento non sappiamo se ci sono responsabilità penali. Ma pesano molto di più quelle politiche. E non possono essere accertate, né tantomeno assolte, dalla magistratura. L’intero sistema sociosanitario si è dimostrato inadeguato e distorto. Invece di garantire la cura, in prossimità e costanza, muovendosi cioè verso chi ne ha bisogno, potenziando i servizi nel territorio, si è andati in direzione contraria. Con il risultato di fare dei luoghi di cura e assistenza una sorta di sistema concentrazionario, divenuto il focolaio ideale per il contagio.
Preso nelle maglie di questa rete l’anziano/a è diventato/a simbolo della vulnerabilità umana. Quei vulnerabili intesi come “gruppo a parte”, distinti e distanziati dagli “altri”. Come se ognuno/a di noi non fosse diversamente vulnerabile; esposto/a al rischio e portatore, a sua volta, di rischio per altri.
L’anziano/a vulnerabile non è solo la vittima predestinata, già uno stigma pesante. E’ anche il pericolo pubblico da scongiurare, perché a maggior rischio degli “altri”, di ammalarsi gravemente e di pesare sull’assistenza ospedaliera. Ed è perciò oggetto di un “programma particolare”, di percorsi specifici nell’ auspicata “riapertura” del paese alla vita. Quando cioè gli/le altri/e torneranno ad animare gli spazi pubblici, dalle strade ai luoghi di lavoro, ancor più bisognerà proteggere gli/ le anziani/e dal contagio. “Mettendoli/e al riparo anche dall’isolamento e dall’afa”. Così Sandra Zampa, sottosegretaria al Ministero della salute, riassume sul Corriere della sera (14 aprile) le linee guida per la fase 2 della terza età. Prima di lei Ursula von der Leyden aveva ipotizzato il prolungarsi dell’obbligo di restare a casa fino a dicembre, forse oltre.
La protezione è il fine, l’obbligo normativo è il mezzo. Come se la casa fosse davvero un rifugio, e non un altro potenziale focolaio del contagio. Soprattutto quando gli/le altri/e che vi abitano torneranno a muoversi, affollandosi nelle strade, nei treni e autobus, nelle fabbriche e negli uffici, nelle scuole, nei centri commerciali. C’è una parte consistente di anziani/e che vive solo/a, o in coppia. Ma sono numerosi i nuclei familiari di genitori e figli/, ed anche con nonni/e. Abbiamo forse dimenticato le tante inchieste sui figli e le figlie che vivono in famiglia, dopo i 30 anni? Con genitori anziani, considerato l’innalzarsi dell’età in cui si fanno.
La verità è che la casa non sarà più un rifugio per chi è una risorsa economica, da rimettere all’opera nella produzione e nel consumo. I pensionati e le pensionate sono tanti/e, nonostante l’innalzamento delletà pensionabile. Ci sono anche i lavoratori e le lavoratrici in età avanzata, che sono però sfavoriti/e rispetto ai più giovani. Più vulnerabili, meno produttivi.
Dall’imperativo “non contare gli anni”, vivi come se tu fossi diversamente giovane, siamo precipitati nel pozzo della segregazione. Del resto, non è la prima volta che la vulnerabilità giustifica la sorveglianza e la restrizione di spazi di vita. Da sempre, alla reclusione e alla vigilanza sono stati sottoposti i soggetti fragili; considerati un rischio per l’ordine sociale, presi come segmenti di popolazione a vario titolo “disabili”, sui quali sperimentare i dispositivi del biopotere, combinando presa in carico e disciplinamento. Sempre in ragione dell’interesse e benessere collettivo. Per la prima volta l’esperimento coinvolge una generazione, senza distinzioni di classe, di sesso, di appartenenza a un territorio. Almeno in apparenza. Dietro lo stesso divieto, la realtà delle disuguaglianze continua a determinare le vite.
Ma il nascondimento più profondo è un altro. Quello di fare del potenziale contagiato l’untore, il pericolo per la salute pubblica. Trasgressori e trasgressive saranno additati/e alla riprovazione collettiva: minacciati/e, denunciati/e, multati/e da solerti funzionari di Stato. Succede già.
E’ possibile, ed auspicabile, che un programma di protezione, basato sulla reclusione, sollevi dubbi e riserve in termini di opportunità ed efficacia. Ma è grave che la proposta non abbia subito suscitato un coro di rifiuti. Eppure, si tratta di una violazione di libertà costituzionalmente garantite, non giustificata dalla necessità di tutelare la salute pubblica. L’intento dichiarato è infatti quello di tutelare la salute personale, anche contro la volontà dell’anziano/a. In breve, di “violare la libertà di cittadini adulti, capaci di scegliere per sé cosa fare e cosa rischiare”, come denuncia Vladimiro Zagrebelsky (Stampa, 14 aprile). Eppure un’alternativa ci sarebbe: informare correttamente sui rischi, offrire a chi ne ha bisogno sostegni adeguati.
Da tempo proprio nella pratica medica si è adottato un orientamento opposto, ed il consenso informato è diventato una condizione preliminare ad ogni trattamento medico. I cittadini/e possono rifiutare le cure, anche quelle salva-vita, e possono indicare in anticipo la loro volontà in merito. E la Corte Costituzionale ha aperto all’ipotesi di poter richiedere il suicidio assistito medicalmente assistito, anche se non è ancora normato. Di colpo è come se spazzassimo via tutto, tornando alla logica vecchia della presa in carico da parte del potere, investito della decisione su vita e morte, salute e sicurezza.
Si pretende che lo accettiamo in nome dell’emergenza? No, fermatevi. Questa soglia non va varcata. Non è un appello, E’ una dichiarazione di resistenza. Ci opporremo in tutti i modi che troveremo per farla rispettare.
fonte: Società della Ragione