La crisi che stiamo vivendo ci sta riportando all’essenzialità. Non è facile ritrovarsi limitati e nello stesso tempo liberi di guardare alla sostanza. Nel tempo l’essenziale è stato sostituito da un individualismo fatto di tanti io incapaci di diventare noi. Adesso i rifiutati siamo noi, perché non ci vogliono come fly people, train people, red zone people. Tocca ai rifiutati di ieri mandarci messaggi di solidarietà e speranza.
Anche il nostro welfare sta vivendo un’esperienza simile: si ritrova incapace di proteggere le persone (e la loro salute) e deve chiedere a tutti di aiutarsi a farlo. Lo avevamo immaginato universalistico e nazionale, poi lo abbiamo preferito regionale e fai da te, dimenticando la seconda metà del Novecento, quando abbiamo sbarrierato le istituzionalizzazioni dei più fragili e separati dalla vita di tutti.
Oggi scopriamo il confinamento di un Dpcm. La deriva delle disuguaglianze sta rendendo difficile diventare società solidale, in un welfare che dovrebbe promuovere tutta la solidarietà necessaria per affrontare i problemi umani senza abbandonarci alla solitudine.
Per affrontare un virus è diventato ragionevole riconoscere l’impossibilità di farcela da soli. Il vecchio welfare lo aveva dimenticato, ossessionato dall’esigibilità dei diritti individuali, senza investire in quelli sociali con l’incontro tra doveri generativi di solidarietà e giustizia. Ha privilegiato il benessere individuale fatto di tanta diagnostica che prescrive e non cura, che eroga prestazioni povere di soluzioni, bruciando risorse in modi irresponsabili. La solidarietà fiscale le ha destinate al bene di tutti e chiede ai gestori di non essere così sottomessi a una committenza politica in cronico conflitto di interessi: promuovere salute o comprare consenso?
È un welfare condannato a un doppio invecchiamento: fiducia che si trasforma in sfiducia nei valori costituzionali e politiche che escono sconfitte dall’incapacità di garantire i livelli di assistenza. I giovani che potrebbero reinterpretare la sfida vengono precarizzati. Vince il prestazionismo costoso e degenerativo. Le risorse per l’assistenza sociale sono incredibilmente aumentate. Erano poco più di 50 miliardi fino al 2012, sono diventate quasi 70 negli anni successivi. Il «tecnicamente impossibile» è diventato «politicamente possibile». Le politiche hanno agito materialisticamente, con tanti trasferimenti e pochi servizi, cioè vantaggio individuale ma non sociale. Sono stati bruciati quasi 20 miliardi all’anno da forze politiche diverse e ugualmente irresponsabili nel fare la stessa cosa: consenso.
Ma le soluzioni adottate per lottare contro il Covid-19 stanno spiazzando tutti, mettono in discussione il materialismo metodologico del vecchio welfare. Chiedono a tutti di affrontare le sfide insieme, non stiamo usando trasferimenti ma comportamenti responsabili e solidali. È l’alfabeto delle pratiche generative, per favorire l’incontro tra persone, problemi e soluzioni. Le risposte unidirezionali sono costose e improduttive. L’incontro tra diritti e doveri è concorso di capacità per moltiplicare la fiducia necessaria e fare la differenza.
Da quando abbiamo iniziato a proporre soluzioni di welfare generativo, molte esperienze nei territori testimoniano che l’impossibile può diventare possibile e incoraggiano ogni autentica ricerca in questa direzione. La condizione impensabile che stiamo vivendo lo testimonia nei fatti, senza parole, con gesti umani, di tante persone… un’epidemia di autentica solidarietà.
fonte: FONDAZIONE ZANCAN