La pandemia di Covid-19 rappresenta la più importante crisi dai tempi della seconda guerra mondiale. È quanto ha recentemente dichiarato Antonio Guterres, segretario generale delle Nazioni Unite, rivolgendo un importante appello a tutti i governi per mobilitarsi ora, e al meglio, nella risposta a questa emergenza globale. Cercare di chiarire e prevenire le cause dell’impatto della pandemia fa parte di questo impegno.
L’impatto di Covid-19 in alcune regioni del mondo, come la Cina e il nord dell’Italia (in particolare Lombardia, Veneto, Emilia Romagna, e Piemonte) hanno riportato in auge studi che indicavano una correlazione tra l’inquinamento dell’aria e la letalità dell’epidemia di SARS in Cina. La SIMA (Società Italiana di Epidemiologia Ambientale) ha pubblicato un joint position paper in cui si ipotizza una connessione tra le alte concentrazioni di particolato atmosferico (PM) e la recente diffusione di SARS-CoV-2 nelle regioni dell’Italia settentrionale. Rispetto a questo ultimo studio, la IAS (Società Italiana di Aerosol), ARPAV (Agenzia Regionale per la Prevenzione e Protezione Ambientale del Veneto) e i ricercatori dell’IFC-CNR (Istituto di Fisiologia Clinica del Consiglio Nazionale delle Ricerche) si sono recentemente espressi dichiarando che gli effetti delle concentrazioni di PM sulla suscettibilità e sulla diffusione del virus mediata dal particolato non sono ancora scientificamente dimostrati.
Particolato atmosferico e infezioni respiratorie
Cos’ha dunque a che fare Covid-19 con l’inquinamento atmosferico? Tanto per iniziare, vale la pena volgere uno sguardo alla patofisiologia di Covid-19 e al ruolo del PM atmosferico. Come per altre patologie respiratorie di tipo infettivo, la trasmissione di SARS-CoV-2 può avvenire attraverso mucose come la bocca, il naso e gli occhi. Come spiegato da Floriano Bonifazi e Francesco Forastiere su Scienza in Rete, la via aerea di trasmissione, che assume particolare importanza negli ambienti chiusi, include due modalità: quella a goccia, che è un processo a corto raggio (meno di 2 metri di distanza), e quella tramite aerosol, cioè tramite gocce più piccole, che può realizzarsi sul corto o sul lungo raggio. La forma più grave di Covid-19 coinvolge il tratto respiratorio superiore, e a seguire i polmoni, nei quali la compromissione della risposta immunitaria apre la strada a infezioni batteriche secondarie, che possono ulteriormente aggravare le condizioni del paziente. Per quanto riguarda il legame tra inquinamento dell’aria e infezioni respiratorie, diversi studi mostrano che l’elevata concentrazione di inquinanti atmosferici provoca un aumento nei tassi di ospedalizzazione per queste malattie. Tra gli inquinanti, è nota la nocività sul tratto respiratorio del particolato PM2.5 e PM10 (con diametro medio ≤2.5 e μm ≤10 μm rispettivamente), e specialmente del PM2.5, che agisce anche sull’immunità polmonare, come si è osservato nelle polmoniti da influenza.
Secondo un recente studio condotto in Emilia Romagna da ARPAE (Agenzia Regionale per la Prevenzione, l’Ambiente e l’Energia dell’Emilia Romagna), le principali fonti di PM10 nel nord Italia includono le merci su strada (21%), agricoltura e allevamenti (19%), riscaldamento a legna (17%), industria (16%) e veicoli leggeri (13%), seguiti da riscaldamento non a legna (3%), produzione di energia (3%) e altre fonti secondarie. L’Italia si colloca attualmente al secondo posto in Europa per decessi da PM2.5, e al primo posto per i decessi da biossido di azoto. Vista l’elevata mortalità riscontrata nei siti industriali contaminati, e il recente rapido aumento dei decessi in zone fortemente industrializzate (come Bergamo e Brescia in Lombardia), direttamente o indirettamente legati a Covid-19, un’ipotesi riguardante il potenziale ruolo dell’inquinamento atmosferico nell’aumento della mortalità sembra più che plausibile.
Un’analisi pubblicata sul Repository di Epidemiologia e Prevenzione ha preso in esame quattro ipotesi per spiegare i possibili effetti del PM sulla diffusione, la patofisiologia e la prognosi delle infezioni respiratorie virali come Covid-19. Vediamole una a una.
Inquinamento atmosferico e prognosi delle malattie respiratorie
Gli inquinanti atmosferici possono influenzare la prognosi delle malattie respiratorie? Sì, potrebbero. Come dimostrano diversi studi osservazionali, nelle zone con elevato inquinamento atmosferico si osserva un peggioramento della prognosi delle malattie respiratorie croniche e di quelle infettive, tra cui la polmonite, e un aumento della mortalità. In particolare, uno studio suggerisce che la variabilità geografica della mortalità del caso di SARS in Cina dal novembre 2002 potrebbe essere in parte spiegata dal forte inquinamento atmosferico. Per quanto riguarda il particolato, studi scientifici individuano nel PM2.5 il maggior responsabile della mortalità nei pazienti affetti da malattie respiratorie infettive.
Inquinanti atmosferici e PM possono causare il peggioramento del decorso delle malattie respiratorie anche in modo indiretto. È il caso delle co-morbidità causate dall’inquinamento atmosferico e del fumo di tabacco (ad esempio asma, BPCO, tumore ai polmoni e malattie cardiovascolari). Per quanto riguarda Covid-19, i pazienti con malattie cardiovascolari sembrano risultare più suscettibili alle complicanze più gravi dell’infezione, incluso il decesso. Inoltre, come riferito dall’ISS (Istituto Superiore di Sanità), il fumo di tabacco, in quanto fonte di PM, aumenterebbe la probabilità di ricovero ospedaliero per Covid-19, e il successivo ricorso a cure intensive e alla ventilazione meccanica. L’associazione tra fumo e severità di COVID-19 resta ancora oggetto di dibattito e di studio da parte della comunità scientifica.
Effetti dell’interazione tra inquinanti atmosferici e virus
Può l’interazione con gli inquinanti atmosferici aumentare il potenziale infettivo dei patogeni di tipo respiratorio? Sì, potrebbe. Le principali evidenze scientifiche degli effetti diretti del PM sulle malattie respiratorie sono state finora ottenute su modelli animali. Tuttavia, sulla base di queste osservazioni, i meccanismi target su cui agisce il PM corrispondono a quelli coinvolti nella fisiopatologia delle malattie infettive respiratorie umane, e coinvolgono una scarsa risposta infiammatoria e una significativa attività di immunosoppressione. Considerata l’importanza, per il decorso dell’infezione da Covid-19, della risposta efficace dei pazienti all’insorgenza delle infezioni batteriche secondarie, non è possibile quindi escludere che l’esposizione agli inquinanti atmosferici possa effettivamente aumentare il potenziale infettivo di SARS-CoV-2.
In particolare, l’esposizione di topi al PM10 geogenico (che gioca un ruolo particolarmente importante negli ambienti aridi) ha fatto osservare un aumento nei processi infiammatori, la compromissione della funzionalità polmonare, e un aumento della carica virale, con conseguente peggioramento della risposta all’infezione respiratoria virale. Effetti simili sono stati rilevati con l’esposizione al PM2.5, dove l’aumento dell’infiammazione, la riduzione delle difese immunitarie e la maggior incidenza di nuove infezioni hanno portato a un aumento della mortalità. Lo stress ossidativo prodotto dall’esposizione acuta al PM causa anch’esso immunosoppressione polmonare, aumenta la gravità delle malattie influenzali, e si traduce in una maggiore morbidità e una minore sopravvivenza alle infezioni virali. Infine, per quanto riguarda i danni genetici, l’esposizione al PM può provocare cambiamenti sistemici nella metilazione del DNA, compromettendo quindi la regolazione della produzione di proteine. Effetti di questo tipo sono stati osservati in operai di un’acciaieria esposti ad alti livelli di particolato con herpesvirus EBV (Virus Epstein-Barr), e studi condotti sui topi suggeriscono che l’esposizione prolungata a PM2.5 e PM10 può generare alterazioni epigenetiche, citotossicità, stress ossidativo e infiammazione, con compromissione delle difese a livello polmonare e aumento delle malattie respiratorie legate al PM.
Il particolato atmosferico come possibile veicolo del virus
Come proposto dai ricercatori della SIMA, una terza ipotesi riguarda il ruolo del PM come veicolo per Sars-Cov2. Sebbene il potenziale ruolo del PM come veicolo per patogeni sia già stato dimostrato, pochi studi hanno effettivamente esplorato le dinamiche e le composizioni microbiche del particolato. Ad esempio, uno studio del 2012 e 2013 di Qin Nan e colleghi sulle comunità microbiche del PM atmosferico a Pechino ha rilevato la prevalenza di batteri (95.5% per PM2.5, 93% per PM10), seguiti da eucarioti (1.5% e 2.2%), archeobatteri (0.2%) e virus (2.8% e 4.5%). La variabilità dei microrganismi è risultata dipendere dalla temperatura e dall’umidità, e l’abbondanza è risultata maggiore nel periodo invernale e durante i maggiori eventi di smog. Uno studio simile del 2014 ha rilevato una prevalenza di batteri (81% per PM2.5 e 86% per PM10), seguiti da eucarioti (13% e 18%), archeobatteri (0.8%) e virus (0.1%). In particolare, i ricercatori hanno osservato la presenza di adenovirus umano sia sul PM2.5 sia sul PM10, che aumenta in funzione dell’inquinamento.
Stando alla letteratura attuale, il PM atmosferico è quindi in grado di ospitare quantità molto piccole di alcuni virus. Inoltre, le interazioni tra microrganismi e particelle possono variare in modo significativo a seconda delle proprietà chimiche e delle condizioni ambientali, come la temperatura e l’umidità, modificando l’attività o vitalità dei microbi. D’altra parte, tenendo conto dei tempi relativamente brevi di attività di SARS-CoV-2 nell’aria (massimo 3 ore nell’aerosol) e considerando che le infezioni virali necessitano di un minimo specifico di carica virale per essere innescate, l’ipotesi che l’infezione possa derivare dall’inalazione di virus trasportati dal PM appare poco probabile. In generale, la mancanza di prove scientifiche non consente di confermare l’ipotesi della diffusione del contagio di Covid-19 tramite PM outdoor, ma sottolinea il potenziale di contagio negli ambienti indoor, incluse le infrastrutture del trasporto pubblico e i luoghi anche aperti particolarmente affollati.
Inquinamento atmosferico e antibiotico resistenza
Fra i possibili responsabili dei decessi da Covid-19 vi sono anche i germi normalmente ospitati nel naso e nella gola, e i batteri antibiotico resistenti che si incontrano negli ospedali. In questo senso, essendo il PM in grado di veicolare agenti patogeni provenienti da allevamenti e altre fonti agricole, una quarta ipotesi sul ruolo del particolato potrebbe riguardare il possibile aumento dell’antibiotico resistenza come effetto della prolungata esposizione a fonti di inquinamento quali le acque reflue e gli allevamenti. Un collegamento per SARS-CoV-2 è stato osservato in un recente studio pubblicato su The Lancet, che riporta possibili contaminazioni enteriche da queste fonti, ragione per cui, come spiega Nature, molti gruppi di ricerca hanno comincato ad analizzare i sistemi fognari.
Per quanto riguarda la potenziale presenza di microbi associali al materiale fecale, come dimostrato dallo studio del 2012 e 2013 di Qin, la proporzione di specie microbiche associate alle feci umane, dei cani e dei suini aumenterebbe in modo significativo al crescere delle concentrazioni di inquinanti sia nei campioni di PM2.5 sia in quelli di PM10. I microrganismi, che nello studio presentavano una maggior presenza nel più inquinato mese di gennaio, includevano molti commensali e potenziali agenti patogeni umani, così come potenziali agenti patogeni associati ai polli. In questo senso, per il possibile trasferimento all’uomo di batteri resistenti agli antibiotici provenienti dal bestiame, gli studiosi sottolineano l’importanza di mitigarne la diffusione nell’ambiente. Peraltro, stando alla letteratura scientifica, un fattore critico nella diffusione ambientale della trasmissione di batteri antibiotico resistenti risulta essere la loro persistenza in ambienti agricoli.
Nuove soluzioni a vecchi problemi
Sulla base degli studi epidemiologici, l’esposizione all’inquinamento atmosferico e al particolato sembra giocare un ruolo importante nella suscettibilità e la prognosi alle infezioni respiratorie. Sia in modo diretto, sia per gli effetti indiretti esercitati dal fumo di tabacco e da una serie di debilitanti co-morbidità come il rischio cardiovascolare. Tuttavia, i risultati degli studi condotti in laboratorio su modelli animali rendono difficile indagare e misurare con precisione quanto il PM possa effettivamente accrescere il potenziale infettivo dei patogeni respiratori nell’uomo.
Per quanto riguarda il possibile ruolo del PM come veicolo di diffusione delle infezioni virali, la sostanziale mancanza di prove a supporto di questa ipotesi sembra piuttosto segnalare la necessità di un’indagine più approfondita.
Nel caso in cui questa terza ipotesi venisse provata, una particolare attenzione meriterebbe il PM geogenico negli ambienti aridi, tanto per i Paesi più poveri, quanto per le restanti regioni del mondo che, come l’Italia, risultano soggette per effetto dei cambiamenti climatici al progressivo e già misurato avanzare della siccità.
La quarta e ultima domanda relativa al potenziale ruolo del PM nel trasporto di microrganismi antibiotico resistenti dovrebbe semmai sollevare alcune domande di interesse sanitario. Siamo sicuri di conoscere a sufficienza il potenziale di antibiotico resistenza nei nostri campi e allevamenti? Siamo certi di fare abbastanza per mantenere i nostri ospedali sicuri per i pazienti?
Le conclusioni che si possono trarre da una prima revisione della letteratura scientifica sembrano abbastanza chiare: “Una rondine non fa primavera”, ma può valere lo sforzo di volgere uno sguardo al cielo. Come dimostra la recente esperienza di SIMA, identificare una correlazione tra due variabili non ne dimostra la causalità. Allo stesso modo, uno studio che mostra una possibile correlazione tra inquinamento atmosferico e mortalità per SARS in Cina dal 2002 non può essere trasposto ad altri contesti senza ulteriori studi. Tuttavia, un ragionevole dubbio induce giornalisti e cittadini a porsi domande importanti. Il lockdown che ha accomunato Italia e Cina, e che ora va estendendosi ad altri paesi presi nella morsa dell’epidemia, con tutti i disagi e problemi che pone, induce anche a riflettere sul cielo insolitamente azzurro sopra le metropoli normalmente inquinate. Disinquinare, e avviare finalmente decise politiche di mitigazione del cambiamento climatico, è possibile e non più rimandabile.
La correlazione tra Covid-19 e inquinamento nelle aree industrializzate merita di essere indagata più a fondo. La composizione e il potenziale di tossicità del PM possono mostrare una grande variabilità, il che dovrebbe indurre anche a indagini specifiche nelle diverse aree geografiche, utilizzando le enormi potenzialità offerte dall’analisi di big data, dall’intelligenza artificiale e dalle più avanzate tecniche di visualizzazione dei dati oggi a disposizione dei ricercatori. Stando alle recenti notizie del coinvolgimento da parte del Ministro per l’Innovazione di un gruppo di 74 esperti per l’analisi dei dati per far fronte all’emergenza coronavirus, e visto il potenziale supporto dell’European Centre for Medium-Range Weather Forecasts all’analisi delle variabili meteorologiche satellitari, anche l’Italia dovrebbe avviare il prima possibile questi approfondimenti. Chi cerca trova.
autori dell’articolo: Simona Re, Angelo Facchini, Natascia Brondino, Federico Grazzini, Giorgio Vacchiano, Luca Carra
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fonte: SCIENZA IN RETE