Con Alessandro Rosina, saggista e docente*, abbiamo provato (Rassegna Sindacale N.d.R.) a capire quali ricadute future potrà avere la pandemia sulla popolazione giovanile in un paese come l’Italia dove le giovani generazioni sono state tradizionalmente trascurate dalle nostre politiche. Non bisogna dimenticare infatti che da noi sono quasi 3 milioni le persone tra i 15 e i 34 anni che non lavorano (il 23,5 per cento del totale), due milioni delle quali sono under 30 e quasi un milione tra 30 e 34 anni. Intervista di Stefano Iucci
Nei giorni scorsi a Predappio c’è stata la vittima con coronavirus più giovane che si sia registrata in Italia dall’inizio dell’epidemia. Aveva solo 26 anni. Il virus dispiega la sua letalità, tragicamente, sui più anziani e dunque, giustamente, si parla in questi giorni soprattutto di loro. I giovani sembrano un po’ usciti dai radar eppure le conseguenza economiche, sociali e psicologiche di questa pandemia saranno in un futuro prossimo pesanti soprattutto per loro… Come vedi il post-epidemia per loro? Quali saranno le maggiori ricadute per loro?
L’esposizione al contagio di Covid-19 è legata alla frequenza del contatto con altre persone in ambiente scolastico, di lavoro, familiare, sui mezzi di trasporto, nei luoghi pubblici. Riguarda quindi tutti, ma ancor più chi fa una vita sociale più intensa. Il rischio di ammalarsi in modo grave e fatale è però fortemente legato all’età. Possono quindi esserci casi non infrequenti di vittime tra giovani sani. È però soprattutto l’elevata letalità tra la popolazione anziane, in particolare tra chi ha organismo debilitato e presenta altre patologie, che ha portato alle drastiche misure di contenimento della diffusione adottate. Il costo della crisi sanitaria più diretto è quindi la mortalità che colpisce soprattutto i più anziani e su essi è concentrata oggi, giustamente, la maggiore attenzione. Ma le ricadute indirette, conseguenza delle misure adottate per il contenimento, rischiano di risultare particolarmente pesanti per i più giovani, con conseguenze negative sulla loro formazione, sui percorsi lavorativi, sulle scelte di vita. Questo vale ancor più in Italia: l’epidemia ha colpito nel modo più grave il paese che in Europa presentava già il record di Neet (under 35 che non studiano e non lavorano), la più lunga permanenza nella casa dei genitori, la più tardiva età di arrivo nel primo figlio. Ma anche il debito pubblico italiano era già uno dei più elevati al mondo e i costi del suo aumento per affrontare la crisi saranno soprattutto a carico delle nuove generazioni.
Il rischio, probabilmente, è anche che aumentino le diseguaglianze…
Sì. L’impatto negativo del rimanere in casa è molto differenziato. Dipende dal tipo di contratto di lavoro, dalla possibilità di continuarlo o meno, dal tipo di azienda o organizzazione in cui si lavora, dalla dotazione o meno di strumenti di smart working, dalle competenze avanzate e digitali del lavoratore.
Stare a casa non è uguale per tutti. Dipende da vari fattori
Rispetto alla formazione, dipende dalla capacità delle diverse scuole di mettere efficacemente in atto la didattica a distanza, dalle competenze digitali degli insegnanti, dal supporto dei genitori. C’è poi il clima familiare, con possibilità di forti tensioni sotto la pressione dell’emergenza in carenza di adeguate risorse socio-culturali.
Si è molto discusso e si discute ancora sulle ragioni per le quali in Italia la letalità del covid è molto più alta che in altri paesi occidentali e tra le ragioni indicate ci sarebbe non solo la forte presenza nel nostro paese di popolazione anziana, ma anche il fatto che molti giovani vivono in casa degli adulti e poi ci sono i nonni, il nostro welfare familiare, che aiutano i figli (e i nipoti)… Il tema è delicato e va maneggiato con cura, ma pensi che questa tragica pandemia possa essere un’occasione per rivedere certe modalità di “funzionamento” della nostra società molto spostata verso la famiglia rispetto a un’indipendenza che in altri paesi si raggiunge prima?
Rafforzare il welfare migliorerebbe i rapporti tra giovani e famiglie
Il fatto di avere più anziani rende la popolazione italiana più fragile, quindi maggiore tende ad essere la mortalità causata dall’epidemia. I più vulnerabili sono gli over 75 e l’Italia in Europa è il paese con la porzione più grande in Europa di abitanti di tale età (oltre 7 milioni) dopo la Germania. La numerosità di tale componente della popolazione italiana è superiore al totale degli abitanti della Danimarca. La maggior intensità della relazione tra genitori e figli, lungo tutte le fasi della vita, che caratterizza il modello familiare dei paesi sud-europei può essere uno dei fattori che possono aver favorito una maggior diffusione dell’epidemia nella componente più fragile della popolazione. L’Italia è uno dei paesi con maggior percentuale di anziani che vivono da soli, ma a poca distanza dalla famiglia dei figli e dei nipoti. Inoltre gli anziani hanno un ruolo importante per il sistema di welfare informale: forniscono sia aiuto economico ai figli o nipoti in caso di necessità, ma soprattutto aiutano (quando sono in buona salute) a compensare le carenze dei servizi per l’infanzia, accudendo i nipoti mentre i genitori lavorano o portandoli a scuola o altre attività culturali e sportive. L’impatto del coronavirus è quindi di grande rilievo in Italia anche dal punto di vista sociale, andando a impoverire sia gli aiuti forniti sia quelli ricevuti, che sono l’asse tradizionale del sistema di welfare informale italiano. Insomma, rafforzare il sistema di welfare formale aiuterebbe i giovani e le famiglie italiane a vivere positivamente gli intensi legami, ma di non essere solo vincolati ad essi, con il rischio di cronico sovraccarico per carenza di alternative o sovraesposizone congiunturale a rischi in situazioni di emergenza come quella provocato dall’epidemia.
Ora siamo in piena emergenza, ma certo preoccupa il futuro in un paese che per i giovani ha fatto sempre troppo poco. Cosa pensi che occorra fare in un’auspicabilmente rapida fase post-epidemia, visto che le politiche messe in campo finora (penso a Garanzia Giovani) hanno prodotto risultati poco soddisfacenti già in tempi “normali”?
Il rischio: posticipare le scelte di autonomia
L’Italia è entrata in questo secolo attraversata da profonde diseguaglianze, di genere, generazionali, territoriali e sociali. Non è riuscita a mettere le nuove generazioni nelle condizioni di ridurre tali diseguaglianze, migliorando formazione e opportunità di valorizzazione indipendentemente dall’essere donne o uomini, di essere nati al Sud rispetto al Nord, dall’entità delle risorse socioculturali della famiglia di origine. La recessione iniziata nel 2008 ha aggravato ulteriormente la situazione e le politiche messe in atto, come Garanzia giovani, non sono state in grado di sollevare le nuove generazioni di italiani dalle posizioni più basse in Europa rispetto alla qualità del lavoro, alla stabilità economica, alla promozione delle scelte di vita. Dopo l’uscita dagli anni acuti della recessione non c’è stata alcuna solida ripresa. In particolare è continuata la diminuzione delle nascite e la ricerca di migliori prospettive in altri paesi. Il rischio è ora che le scelte di chi progettava l’uscita dalla casa dei genitori, di formazione di una propria famiglia, di avere un figlio, vengano ulteriormente posticipate e riviste al ribasso.
Ma se ora non si prepara per tempo l’uscita dalla crisi sanitaria, ripensando al modello sociale e di sviluppo, riposizionando in particolare le nuove generazioni al centro del motore della crescita del paese, diventerà difficile evitare un destino di declino irreversibile per il resto di questo secolo.
L’Italia non ha mai investito a sufficienza sul capitale umano, a partire ovviamente dalla giovani generazioni… crede che questo ci penalizzerà rispetto ad altri paesi in una fase di ricostruzione successiva alla pandemia?
Serve una politica che torni a investire sulle persone
Ancor più dopo questa nuova crisi, le potenzialità dell’Italia sono legate alla capacità di mettere tutti, a partire dalle età più giovani fino a quelle più avanzate, nelle condizioni di dare il meglio di sé. A tale fine serve una politica che torni ad investire sulle persone e a sostenere scelte educative di valore, un inserimento qualificato nel mondo del lavoro, una realizzazione piena dei propri progetti di vita. In assenza di tutto questo, andrebbe ulteriormente ad accentuarsi il paradosso italiano di aver nuove generazioni demograficamente meno consistenti ma anche meno incluse e valorizzate all’interno dei processi di sviluppo del paese. Questo significherebbe per l’Italia rimanere ineluttabilmente al margine dei percorsi più virtuosi di produzione benessere nel resto di questo secolo.
*Alessandro Rosina insegna Demografia e Statistica sociale nella Facoltà di Economia dell’Università Cattolica di Milano. Come si legge nella nota biografica contenuta nel suo sito, si occupa di “demografia, e tutto ciò che ruota attorno. Analizza e approfondisce, in particolare, temi quali la transizione alla vita adulta, il degiovanimento, il capitale umano e la mobilità internazionale dei talenti, le politiche familiari, il welfare e l’innovazione sociale, la longevità”. Rosina coordina la principale indagine italiana sulle nuove generazioni (il “Rapporto giovani” dell’Istituto G. Toniolo) e ha al suo attivo numerose pubblicazioni di successo su un tema che è stato tra i primi ad analizzare nel nostro paese. Ricordiamo, in questa sede, “Non è un paese per giovani. L’anomalia italiana: una generazione senza voce“, (con E. Ambrosi, Marsilio, 2009) e “L’Italia che non cresce. Gli alibi di un paese immobile” (Laterza, 2013).
Fonte: RASSEGNA SINDACALE