La priorità di queste ore è sicuramente garantire la salute e la sicurezza delle lavoratrici e dei lavoratori, e con essi di tutto il Paese. Ma c’è un dibattito, sotteso alle urgenze quotidiane, che rimbalza in queste ore sui siti web e sui giornali: come si può usare la tecnologia per arginare il contagio? Proviamo intanto a fare una veloce panoramica internazionale sul rapporto “contrasto al Covid-19 e tecnologia”. La Cina, nella fase acuta di contrasto alla diffusione del virus, ha potenziato il suo già massivo sistema di sorveglianza (videocamere e sistemi di riconoscimento facciale tra gli altri) e utilizzato applicazioni di geolocalizzazione e sorveglianza dei potenziali infetti. Sistemi tutti già attivi nel Paese, ma implementati e adattati all’emergenza sanitaria. Il governo ha creato un’applicazione, Healthcode, all’interno di WeChat (equivalente al nostro whatsApp) o Alipay (sistema di pagamento di Alibaba) che assegna alle persone un codice-colore (verde- giallo-rosso) in base ai recenti spostamenti, per capire se debbano stare in quarantena o meno. Usando piattaforme molto diffuse e rendendo interoperabili i dati raccolti, confluenti in database integrati, si effettua una tracciatura sistematica.
È bene ricordare che in Cina quasi il 90 per cento delle transazioni sono effettuate in modalità elettronica e per bus, metro e taxi si paga parimenti scannerizzando un qr-code con alipay o wechat. Se si paga cash, oggi bisogna compilare un foglio con i dati e il numero del documento di identità! E per controllare il rispetto delle norme sono scansionati tramite un qr-code anche gli accessi al lavoro e al proprio domicilio e rilevati dati biometrici. Immettendo nell’applicazione gli Id dei cittadini se ne visualizza il colore e dunque il potenziale rischio dell’interazione. Contestualmente la Cina ha utilizzato i droni per molte consegne ai cittadini in quarantena o per i trasporti di campioni tra strutture ospedaliere, per misurare la temperatura a distanza e per controllare porzioni di territorio, riducendo al minimo l’interazione umana. E ha sperimentato robot che effettuassero delle funzioni mediche e di assistenza non complesse (misurazione febbre, consegna pasti, monitoraggio visivo del paziente).
La Corea del Sud ha coniugato una massiccia campagna di tamponi (circa 15.000 al giorno) mirata ed effettuata anche in 50 parcheggi dedicati, con una restrizione della privacy che consente di rendere pubblici i dati ricavati da geolocalizzazioni, filmati, dati delle carte di credito per permettere a chi abbia avuto contatti con persone affette da Covid-19 di sottoporsi al test. Ha istituito anche la figura di ufficiali di “quarantena”, persone fisiche che tracciano i movimenti degli eventuali malati controllando telefono, spostamenti dell’auto ed effettuando interviste telefoniche, mentre ai cittadini vengono inviati sms se vi sono casi confermati nella zona di residenza. Ci sono app private, oltre a quella governativa, che avvisano il cittadino se ci si avvicina entro 100 mt dal possibile o certificato contagiato. Ricordiamo che, utilizzando questo sistema in Corea sono state istituite micro zone rosse, molto circoscritte, che non hanno comportato il lockdown generalizzato.
Anche Singapore (23 milioni di abitanti), avendo massivi contatti con la Cina, ha operato in grande anticipo, tramite un monitoraggio rivolto prevalentemente ai soggetti in quarantena che vengono controllati tramite invio di messaggi, telefonate cui bisogna rispondere fotografando l’ambiente in cui si sta per certificare la permanenza a casa, obbligo di geolocalizzazione e possibili visite a domicilio delle autorità. Anche a Singapore si è proceduto contestualmente a una campagna massiva di test. Israele ha agito con decretazione di urgenza: ha approvato una legge di emergenza per tracciare i dati dei cittadini e sembra intenzionata ad utilizzare tutte le tecnologie militari a disposizione per effettuare monitoraggi ad opera direttamente del servizio di sicurezza. In ogni caso ad oggi sembrerebbe che la tracciatura del singolo sia anonimizzata e consultabile su una mappa pubblica.
In Italia abbiamo notizia dello sviluppo di un’applicazione che sfrutta i dati di geolocalizzazione degli smartphone per tracciare i contatti con i contagiati. Ma in Europa, e in Italia, esistono norme stringenti sulla tutela della privacy. L’European Data Protection Board ha adottato una dichiarazione di merito il 19 marzo: ad esempio ha ritenuto che la geolocalizzazione, come misura di prevenzione contro il Covid-19, potrebbe essere compatibile con le normative vigenti, in particolare l’art. 2 Gdpr (Regolamento generale sulla protezione dei dati, ndr), che comunque richiama la necessità di misure appropriate per la tutela dei diritti e delle libertà dell’interessato. L’uso dei dati di localizzazione dei dispositivi mobili potrebbe anch’esso essere effettuato, ma in forma aggregata e anonima.
Insomma, esistono norme, direttive, dichiarazioni. In questo senso si è già espresso anche il garante della privacy, Antonello Soro, che ha ricordato anche pubblicamente come i diritti possano, in emergenza, subire delle limitazioni solo se queste sono proporzionali alle esigenze specifiche e temporalmente limitate. Ci si richiama cioè ai princìpi di necessità e proporzionalità. Non credo sfugga a nessuno che il rispetto di alcune regole democratiche basilari, anche in fase emergenziale, sia assolutamente necessario. Come scrive Yuval Noah Harari sul Financial Times del 20 marzo scorso, “molte delle misure di emergenza a breve termine diventeranno strutturali. Questa è la natura dell’emergenza”.
Sebbene vi sia, a detta del garante stesso, un raccordo costante con la Protezione civile, titolata in questa fase alla gestione dei dati, sarebbe forse opportuno che il governo italiano chiedesse all’Autorità garante della privacy la redazione di una policy utilizzabile per l’eventuale diffusione di specifiche applicazioni tecnologiche, una policy che chiarisca quali dati siano davvero necessari, garantisca trasparenza, gestione pubblica e, soprattutto, una chiara dimensione temporale e un’efficace clausola di disinnesco. La tecnologia della sorveglianza non è tema di fantascienza ma dato reale, un settore in cui molto si sta investendo in tutto il mondo, e dunque, più che mai in una situazione di emergenza, è necessario che la tecnologia sia utilizzata a favore delle persone e nel rispetto dei princìpi costituzionali e normativi che distinguono i governi democratici da quelli totalitari.
Stiamo infatti parlando di rilevazione di dati biometrici, di dati sanitari, della mobilità dei singoli, di dati dunque oltremodo sensibili. Se poi si pensasse di utilizzare anche le parole chiave digitate sui motori di ricerca o sui social, il tema diverrebbe ancora più complesso.
Proprio per questo, mentre ancora non è chiaro se e come il governo italiano si stia muovendo nella direzione di un maggiore utilizzo delle tecnologie, è necessario che si coniughino tutela della salute e tutela della privacy, che i cittadini siano informati e su quali dati saranno eventualmente necessari per contrastare l’epidemia, dati che saranno utilizzati dal sistema pubblico, in modalità anonima e trasparente. Ed è del tutto evidente che, trattandosi di una pandemia, i dati dovrebbero essere raccolti e gestiti in maniera trasparente almeno nel continente europeo, forti di una recente normativa comune, il Gdpr, che regolamenta la gestione della privacy. Insomma, la grave emergenza in atto non può essere il cavallo di Troia di possibili permanenti affievolimenti delle libertà individuali e dei diritti costituzionali. Una sfida nella sfida.
fonte: RASSEGNA SINDACALE