Quando slegavo Ada. di Giada Cola

Quindici marzo. Fuori è scoppiata una pandemia che affanna i polmoni e riempie gli obitori di cadaveri. Sono così tanti che non si sa più dove metterli e la gente deve vegliare i propri cari in solitudine. Per strada la gente si accarezza con gli occhi. Curva le labbra sotto le ultime mascherine rimaste. Nel metro che separa gli uni dagli altri c’è un silenzio immobile, carico di gesti di affetto che è meglio tenere per sé ancora un po’.

Intanto il Paese perde i suoi vecchi. Con loro se ne vanno il culto dei morti e le memorie più remote e tenaci, quelle che non hanno bisogno di parole per svelarsi.

Ho scoperto l’esistenza di queste memorie quando, quasi ventiquattrenne, iniziai a bazzicare nei centri diurni.

Un’offerta di lavoro accettata per convenienza, molto lontana dalle mie aspirazioni, ma capitata al momento giusto. Il contratto a tempo determinato, quattrocento euro al mese, poche ore a settimana.

Lavorare nei centri mi permetteva di continuare la mia attività di educatrice domiciliare per la tutela minori e, lì per lì, mi pareva più interessante che fare assistenza scolastica.

Quindi vado: accetto, firmo, metto piede tra teste che ciondolano assenti ed è lì che incontro Ada.

Ada ha una settantina d’anni e le pupille di un blu vacuo e diluito. Sta semisdraiata sulla poltrona, lontana dal tavolo dove tutti gli ospiti sono messi a sedere e con la mano destra afferra le sue belle ciocche grigie. Prima di ammalarsi, Ada dipingeva e scriveva poesie. Dell’artista le è rimasta l’espressione sognante e vagamente assente.

Quando la vedo per la prima volta non capisco che quella che le cinge la vita è una cintura pelvica e che lei, a quella poltrona, è legata. Non so com’è che di quella donna silenziosa io mi limiti a cogliere i colori chiari, la forma morbida del corpo invecchiato ma non svuotato, anzi pieno, caldo.

La cartella clinica di Ada è un coro polifonico di voci disperanti e rassegnate. L’ipertensione, il diabete, una grave demenza. E poi l’instabilità agli arti inferiori, gli stati di agitazione, le confabulazioni. Ada è lì, legata alla poltrona, in attesa di spegnersi.

La cintura pelvica la vedo all’incontro successivo, quando l’operatrice sanitaria che è in turno si rivolge alla donna e con tono sprezzante le dice: «Su Ada, che adesso mettiamo questa cosa tra le gambe. Ti piace, ah?».

Non so quale preciso elemento di una simile brutalità mi abbia sconvolta maggiormente. Forse la modalità abusante e violenta, o forse vedere l’operatrice chiudere quei ganci intorno al ventre di Ada con un gesto distratto, abitudinario, privo di pensiero.

Quell’episodio è stata la cosa più simile a uno stupro alla quale io abbia mai assistito ed è stato in quel preciso istante che ho capito d’esserci cascata. La scelta della facoltà universitaria, la laurea triennale, poi la magistrale, il tirocinio post laurea, il lavoro e poi quel tarlo che, lento, iniziava a farsi strada tra i pensieri.

Più toccavo con mano cosa fosse l’assistenza psicologica fuori dallo studio privato, più mi domandavo se fosse davvero il caso di presentarmi a quell’esame di stato.

Il mio terapeuta ripeteva: «Saresti una brava professionista», e puntualmente i miei sogni lo smentivano, grevi di immagini nelle quali la paziente imbruttita e privata di ogni volontà ero io. Alla fine all’esame di stato ci sono andata. Quando all’orale, con modi sardonici e un po’ irritanti, mi hanno domandato come avessi fatto a passare così bene gli scritti, ho risposto che era per esperienza.

«Mamma psicoanalista e papà psichiatra?» chiede il commissario indagatore.

«No – dico io – ho transitato più nella categoria dei pazienti».

Abilitata.

Ecco l’ennesima commessa del potere pronta ad aprire la sua pagina Facebook per pubblicizzare corsi-tutti-i-gusti. D’altronde ci si deve un po’ improvvisare, ci si deve lanciare.

Nel 2018 in Lombardia c’erano più di diciottomila psicologi. Devi competere, se non vuoi soccombere.

Dal giorno dell’orale mi ci sono voluti tre mesi per decidere di mandare i miei dati all’ordine e confermare l’iscrizione all’albo.

Quando ho visto legare Ada alla poltrona, ho capito che se mai avessi fatto qualcosa della mia abilitazione, sarebbe stato usarla per combattere.

E tuttavia introversione e insicurezza non sono precisamente le doti ideali di una combattente, perciò procedetti per tentativi.

La settimana successiva iniziai a domandare a ogni operatore perché tenessero Ada legata. Nelle loro bocche la ragione variava di poco: è una paziente agitata, instabile, così la proteggiamo. E non meno importante: chi si prende la responsabilità di slegarla?

Riportai la domanda alla direttrice sanitaria, una donna canuta, prossima al pensionamento, che si dimostrò tuttavia meno indisponente di quanto immaginassi e mi rispose che slegare Ada era possibile, a patto che mi occupassi anche di compilare la burocrazia annessa.

Presi contatto con un collega che lavorava in struttura da più di due anni e non aveva mai fatto domande sull’utilizzo della contenzione.

«Facciamo il nostro lavoro e manteniamo un basso profilo», mi rispose un po’ seccato.

L’avevo disturbato mentre collezionava l’ennesimo master in psicodiagnosi e testistica.

Una questione di priorità, forse.

La prima volta che tolsi una contenzione, lo feci a una donna di settant’anni, che si chiamava Ada e si tirava così forte i capelli da strapparli. Lo feci domandandole se fosse d’accordo. Presi il suo sorriso per un sì. Aprii i ganci e la sentii respirare profondamente, mentre le cinghie si allentavano. Poi le dissi di afferrare il tavolo difronte a lei e tirarsi su. La sostenni con entrambe le mani, in allerta. Sfilai velocemente la cintura e la lasciai cadere a terra. Quando Ada si rimise a sedere, piantò i suoi occhi nei miei e con la mano destra mi fece la prima di tante carezze.

Io vidi Ada agitarsi pochissime volte. Quando accadeva, ce ne stavamo a tenerci la mano. Le spazzolavo i capelli. Le recitavo l’infinito di Leopardi.

Nelle settimane che seguirono, alcune operatrici iniziarono a dimenticarsi di legarla.

Smisero di tenerla isolata, in disparte, e la fecero accomodare al tavolo con gli altri ospiti.

Tuttavia, quando non ero in turno, Ada restava per lo più in poltrona con la contenzione.

Non imparò mai il mio nome, ma mi piace credere che in me scorgesse una presenza rassicurante.

Impastammo: stendere un panetto di uova e farina era meno doloroso che tirarsi i capelli.

Ballammo, sgraziate e stanche.

Mi feci prestare un vecchio album di fotografie, che la ritraeva bellissima e riccioluta, sul dorso di un imponente elefante.

Facemmo lente passeggiate in giardino e io mi accorsi che quando slegavo il corpo di Ada, slegavo anche i suoi pensieri e lei ricominciava a parlare. Le sue memorie erano frantumate, ma nel modo di gesticolare e in certe curiose espressioni che usava, vi erano preziosi frammenti della donna colta che era stata.

Ada prese una brutta polmonite che la costrinse a casa. La sua personale pandemia la visse con accanto i suoi cari.

Aveva perso ogni memoria già prima che la incontrassi e non recuperò alcun ricordo.

Non sempre riuscii a toglierle la contenzione, ma ogni volta che potei le domandai il permesso, con tenerezza.

È il quindici marzo e fuori qualche famiglia passeggia con indosso le mascherine.

Aspettiamo il prossimo TG per tener conto dei morti e dei guariti e io penso ai ricordi che verranno smarriti, in mezzo a questo fermento.

Un po’ com’è accaduto con Ada, la paziente agitata che, secondo le operatrici, riuscii a tenere slegata perché ebbi grande fortuna.

Le istituzioni totali sono brave a cancellare la speranza.

fonte: Forum Salute Mentale

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