Il carcere è balzato agli onori della cronaca solo grazie alle proteste e alle rivolte in molti istituti penitenziari del nord, del centro e del sud d’Italia in seguito alle norme del decreto legge del Governo che stabiliva la soppressione dei colloqui dei detenuti con i familiari e la sospensione dei permessi e della semilibertà.
Erano stati emanati provvedimenti di chiusura delle scuole e delle università, dei cinema e dei teatri; tutte le le iniziative politiche e culturali erano state annullate, era stato rinviato sine die il referendum sul demagogico “taglio” dei parlamentari ma del carcere nessuno si era preoccupato.
Una distrazione eloquente di come si intende che sia fuori dalla società e dalla città la prigione. Il problema è che chi si dovrebbe occupare di una istituzione totale che però non è chiusa e sigillata non sa nulla della storia del carcere, delle dinamiche che si innescano in relazione alle informazioni che giungono da fuori (si parla non a caso di radio carcere) e delle necessità e delle risposte da dare alle domande legittime e spesso angosciate.
Il detenuto sa di essere in balia di altri, di non avere possibilità di decisione sulla sua vita; è realmente prigioniero e la paura che oggi è vissuta dai cittadini in “libertà” in una condizione paragonabile allo stato di guerra si trasforma inevitabilmente in disperazione.
Le conseguenze sono gli atti di distruzione delle suppellettili delle celle e la devastazione dei locali e la presa non dell’armeria, ma dell’infermeria alla ricerca dei farmaci.
Tredici morti di questa tragedia che ci ha riportato indietro di cinquant’anni con i detenuti sui tetti di San Vittore pare non turbino nessuno mentre dovrebbero interrogare le coscienze di tutti noi e soprattutto dei responsabili di un fallimento sesquipedale.
Se, come sostengo, siamo di fronte a una Caporetto del ministro della Giustizia pro tempore e del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria è bene che si proceda subito a una rimozione come avvenne a Cadorna.
Il sovraffollamento ha ripreso a mordere; a fine febbraio erano presenti nelle carceri italiane 61.230 detenuti (2702 donne e 19.899 stranieri) rispetto a una capienza di meno di cinquantamila posti.
In Friuli Venezia Giulia la capienza è di 479 posti e i presenti sono 663 (23 donne e 236 stranieri); ci sono almeno 184 persone in esubero che sono concentrate a Udine e Tolmezzo, infatti nel capoluogo sono detenuti 153 persone con una capienza di 90 posti e nel carcere in Carnia 225 presenze con 149 posti.
Sono certo che il Presidente del Tribunale di Sorveglianza Giovanni Pavarin metterà in atto tutte le misure per far uscire dal carcere tutti coloro che ne hanno titolo, dai semiliberi agli over 65 anni con problemi cardiaci o respiratori e che saranno valutati con sagacia i detenuti ammissibili alla detenzione domiciliare o all’affidamento in prova.
Contrariamente a una triste vulgata, il carcere va utilizzato come extrema ratio, e quindi va riservato per gli autori di delitti contro la persona o di gravi reati e non come discarica sociale.
Questa emergenza deve convincere che non devono entrare e stare in carcere persone dichiarate tossicodipendenti che sono oltre il 30% ,in cifra assoluta pari a circa 17.000 persone e che va rivista la legge antidroga che per violazione dell’art. 73 del Dpr 309/90 riguardante la detenzione e il piccolo spaccio di sostanze stupefacenti vede la presenza di oltre il 35% dei detenuti, cioè più di 21.000 persone. Una questione sociale riempie le patrie galere per oltre la metà delle presenze!
Un quadro completo si può leggere nel Decimo Libro Bianco redatto dalla Società della Ragione e presentato a luglio dello scorso anno anche a Udine e mi piace ricordare che i dossier precedenti li illustrammo con la presenza di Maurizio Battistutta, garante dei detenuti di Udine, scomparso tre anni fa e i cui scritti assai attuali si possono leggere nel volume Via Spalato.
Nonostante questo dato macroscopico solo tre settimane fa la ministra dell’Interno Lamorgese annunciava che sarebbe stata predisposta, di concerto con il ministero della Giustizia “una norma per superare l’attuale disposizione dell’art. 73 comma cinque che non prevede l’arresto immediato per i casi di spaccio di droga” e per prevedere la “possibilità di arrestare immediatamente con òla custodia in carcere coloro che si macchiano di questo reato”.
Un ministro dell’Interno che si rispetti dovrebbe conoscere i dati e dovrebbe dire la verità e cioè che la proposta di una stretta repressiva si riferisce a una norma già presente nella legge proibizionista del 1990 concernente i fatti di lieve entità. Letta oggi questa appare più che una provocazione un errore politico gravissimo. La propaganda e la demagogia accecano.
Ho curato recentemente una ricerca che dimostra inoppugnabilmente che già oggi, contro la legge, troppe persone vengono rinchiuse in carcere per una scorretta applicazione del comma 5 dell’art. 73 già ricordato. La riforma che è urgente è quindi di segno esattamente contrario a quello proposto in maniera sgangherata.
Per sanare le ferite di questi giorni ci vuole intelligenza e non imboccare la strada della repressione. Occorre invece riprendere i contenuti improvvidamente messi da parte dal ministro Bonafede degli Stati Generali sulla pena e sul carcere.
Non deve sembrare una provocazione. Dalla crisi si esce con l’affermazione dei principi della Costituzione e con leggi che realizzino diritti e garanzie a cominciare dalle condizioni minime di vita. La decenza e la dignità richiedono che il lavandino nelle celle non sia accanto alla tazza del cesso e usato da tre, quattro o cinque persone.
E se vogliamo essere credibili non possiamo chiedere a tutti i cittadini di stare a più di un metro di distanza per ridurre il rischio di contagio e invece con lampante contraddizione ammassare corpi ristretti in uno spazio di pochi metri quadri.
Anche ai detenuti va data una informazione chiara e comprensibile sui rischi per la salute, e va garantito dal servizio sanitario a tutti gli operatori, dalla polizia penitenziaria agli educatori, dai volontari ai famigliari le condizioni di prevenzione della diffusione del virus: misurazione della temperatura all’ingresso, distributori di liquidi disinfettanti e controlli con tamponi nei casi sospetti. L’aumento delle telefonate e l’uso di skype sono un altro segno di rispetto dei sentimenti e del timore dell’abbandono.
Azioni di riduzione del danno ma con una avvertenza. Dopo l’emergenza non si potrà tornare alle vecchie abitudini. Il cambiamento deve cominciare nel fuoco della difficoltà, certo non è un buon segno che il Provveditore Sbriglia sia andato in pensione e non sia stato sostituito e così i lavori di ristrutturazione nel carcere di Udine sono fermi e il carcere di San Vito rimane un miraggio.
fonte: MESSAGGERO VENETO