L’insegnamento del coronoavirus. di Pietro Pellegrini

In poche settimane la circolazione del coronavirus ha messo in crisi molte acquisizioni, certezze, linee che sembravano consolidate. Il virus sta profondamente modificando sanità, economia, società e politica e aperto diverse contraddizioni. Per questo mi pare essenziale una riflessione sulla lezione del coronavirus, intendendo con questo un tentativo di comprendere quale sia l’insegnamento che viene inatteso, indesiderato e dall’esterno.

In modo non organico proverò ad evidenziare alcuni punti.

  1. a) Secondo la nostra Costituzione la salute è un diritto individuale e interesse della collettività.

Viene posta al centro la persona, la sua volontarietà alle cure e il principio di autodeterminazione sono diritti fondamentali della persona da assicurare, insieme alla dignità, in ogni contesto e condizione giuridica.

Nel corso degli ultimi decenni i diritti individuali sono stati via via ampliati (divorzio, aborto, procreazione assistita, unioni omosessuali, questioni di genere, fine vita) e progressivamente distanziati dai c.d. “diritti sociali” all’istruzione, al lavoro e alla tutela dell’ambiente, alla cultura.

Si sono enfatizzati i “determinanti individuali” della salute (stili di vita) rispetto a quelli sociali e ambientali ben sapendo che il peso complessivo dei diversi fattori è diverso e non più del 50% della salute dipende da condotte individuali[1]. Tuttavia questo, nell’ambito della privatizzazione anche della sofferenza, ha portato ad uno scarso interesse e consapevolezza rispetto a determinanti quali clima, inquinamento, istruzione, lavoro, reddito, casa, quartiere di residenza, tipi di servizi sanitari e sociali.

Le ricerche sulle differenze nelle aspettative di vita nei diversi paesi del mondo, in Europa, nelle regioni italiane, ma anche in singole città sono molto significative. A Torino, ad esempio, in un raggio di circa 7 km si registra una differenza di aspettativa di vita di quasi 4 anni[2].

Il coronavirus evidenzia con forza come i diritti individuali e sociali debbano essere fortemente intrecciati e ciò riporta alla qualità del “patto sociale”.

Non vi può essere un diritto alla salute senza un sistema sanitario che per la stragrande maggioranza delle persone non può essere che un welfare pubblico universalistico. Questo non esiste senza una politica sociale e ambientale orientata in tal senso, cioè tesa a promuovere il bene comune rispetto ad interessi di parte.

La salute di ciascuna persona è connessa a quella dell’altra e alla qualità dell’ambiente. E qui, il coronavirus  apre un’apparente contraddizione, in quanto per il bene di tutti occorre limitare contatti e relazioni. Quindi prendersi cura di sé e dell’altro non invoca l’abbraccio ma la “giusta distanza” e le necessarie precauzioni.

La salute è quindi diritto fondamentale individuale e relazionale ma anche bene comune.

Nell’ottica privatistica ampiamente sostenuta specie nei media dove spesso si è inneggiato al privato come sistema migliore del pubblico, la salute diviene invece un bene solo individuale, la sanità può essere comprata, in genere dal privato, direttamente o mediante l’assicurazione come insieme di prestazioni (rigidamente definite ex ante), in una giungla nella quale “chi non ha non è” (Basaglia) in condizione di curarsi. Una sorta di selezione naturale, dove il più forte vince, si afferma nella salute come nell’economia.

In questa logica, la responsabilizzazione del singolo ha diversi risvolti, da quello di combattere l’assistenzialismo prodotto dai sistemi di welfare pubblici (che scompare insieme a loro) a quello di migliorare la cura di sé. In certi casi non solo di autodeterminarsi, magari sostenuti da migliori conoscenze o da “dr. Google”, ma anche di autoprescriversi esami e terapie. Giungendo persino ad esigerli nei tempi e nei modi anche laddove esistono sistemi sanitari pubblici. Il “cliente esigente” e “prepotente”, convinto di andare al “supermarket della salute”, incontra spesso difficoltà. Ne deriva un incremento delle rivendicazioni che si accompagna alla messa in ombra, sia da parte delle persone che del decisore politico, della natura del patto (la genericità dei livelli essenziali di assistenza) e del tipo di titolo che dà diritto ad usufruire dei servizi. In quelli finanziati dalla fiscalità generale ad es. il pagamento delle tasse nei quali il peso dell’evasione fiscale diviene un elemento fondamentale ma quasi totalmente rimosso. Altre variabili concorrono all’attuale situazione, compresa la modificata relazione medico-paziente passata non solo da paternalistica a paritaria ma in diversi casi si è arrivati a mettere in discussione la stessa competenza a curare e sono sempre più frequenti le aggressioni ai sanitari. Welfare a “domanda individuale” e welfare pubblico divengono inconciliabili.

  1. b) La crisi del patto sociale e dei ruoli dei diversi partecipanti.

Non serviva il coronavirus per vedere la situazione. Vi erano già state altre malattie infettive ma anche gli effetti sulla salute della crisi economica e sociale del 2008 erano molto evidenti. Purtroppo questi non hanno cambiato le politiche neoliberiste che, con la minaccia del deficit e del default, hanno spinto ancor più alla distruzione dei sistemi di welfare. Un sistema questo che deve fondarsi su politiche che mirano a ridurre povertà, diseguaglianze, vulnerabilità. Solo in questo quadro si può pensare al sistema sanitario come la più grande opera pubblica del nostro Paese (Rosy Bindi, 2018). Il coronavirus fa dire a tutti che il sistema di welfare pubblico universalistico è fondamentale ma per rilanciarlo occorrono risorse, culture, politiche. Bene gli interventi urgenti ma un sistema di competenze altamente specialistiche richiede tempo, formazione, investimenti. Un sistema che preveda un nuovo rapporto di comunità dove affrontare cronicità ed eventuali emergenze.

Oggi, vista la crescita dell’infezione è grande la preoccupazione per la sua tenuta e lo scenario di persone non assistite per mancanza di posti letto in rianimazione e terapia intensiva può farsi reale. Questo il rischio, specie se l’infezione dovesse diffondersi per l’indifferenza dei cittadini o magari perché l’economia deve continuare e non può fermarsi. O non si tratta di rivedere le priorità? A prendere umilmente coscienza del limite e dell’essenziale?

  1. c) Il coronavirus non è circoscrivibile a gruppi specifici da stigmatizzare, isolare e combattere (il tentativo di associare il coronavirus ai cinesi è stato ben presto travolto dalla realtà) secondo una logica che tende ad identificare, e se serve a creare, un nemico che minaccia la nostra sicurezza verso il quale incanalare malcontento, rabbia e rivendicazioni. Fino a giungere, nel caso dei migranti, a mettere nello stesso problema chi lo sfrutta, chi lo subisce e chi cerca di affrontarlo (“buonisti”, ong) omettendo cause e responsabili e, al contempo, deresponsabilizzando la persona verso l’altro, giungendo ad avvalorare, persino a praticare e teorizzare l’omissione di soccorso verso i naufraghi. Questa purtroppo è la cultura che si è disseminata su una base di qualunquismo e individualismo talora poco colto e opportunista (“non politicamente corretto”) ed oggi non è facile chiamare all’esercizio della responsabilità, intesa come contributo individuale, come farsi carico per la propria parte di un problema.

Che siano i migranti, gli ebrei, gli zingari, i gay, i malati psichiatrici o i drogati, o persino le donne poco importa: sono i “diversi”. Si può utilizzare un meccanismo proiettivo molto utile per il consenso, dando anche l’impressione che problemi complessi possano trovare facili soluzioni nella discriminazione dell’altro magari con “muri” reali o psicologici.

Il coronavirus dimostra che i muri non sono possibili, siamo ormai tutti connessi in un destino comune. A questo si aggiunge che il nemico è invisibile e le persone se stanno molto male e sono a rischio vita non possono trovare risposte privatamente. Specularmente viene da chiedersi a quale comunità si fa riferimento? Ed oggi che il virus può colpire tutti, può scomparire in un attimo la “società liquida” e delle “vite di scarto”[3]? Una società frammentata, sommersa, per quanto sempre più angosciata identificato un nemico comune, diviene solidale? O invece siamo di fronte ad società dell’individualismo egoistico ed egocentrico, unito solo per mera contingente ed inevitabile convergenza di interessi? In queste condizioni, il sommerso, le varie venature e fratture, ora coperte dall’emergenza, al termine della stessa non riemergeranno in modo deflagrante? Solo ora in piena pandemia, l’Unione Europa i cui paesi prendono provvedimenti non coordinati, ipotizza di rivedere il patto di stabilità.

  1. d) Il virus non solo è invisibile ma anche sconosciuto e i tentativi di inquadrarlo trovano molte difficoltà.

L’analogia con il virus dell’influenza non pare adeguato se non per le forme lievi. Il coronavirus dà un ampio spettro di manifestazioni e gravità (nel 10% polmonite interstiziale) tanto da richiedere un ricovero di 3-6 settimane in terapia intensiva o rianimazione con livelli di letalità del 3,5% circa rispetto agli infettati, ed una prevalenza nelle persone anziane e con altre patologie. Questa situazione mette in crisi il servizio sanitario pubblico già in difficoltà per i tagli di personale (quasi meno 10% in dieci anni) e le carenze (in Italia circa 5300 posti in terapia intensiva contro i 30mila della Germania) cui si aggiunge la scarsa propensione ad affrontare emergenze ambientali e infettive.

Queste ultime hanno connotato la storia dell’uomo e sono state troppe volte date per vinte o dimenticate. Invece persistono: si pensi alle morti per dissenteria per acqua infetta, denutrizione e carenze assistenziali. Ma quello è il terzo, quarto mondo, dove nel disinteresse dell’occidente imperversano guerriglie, guerre, depredamento di risorse, siccità, Aids e mortalità infantile impressionante.

Se il denaro torna ad essere mezzo e non fine, se al centro torna la vita delle persone avremo capito la lezione del coronavirus. Questo sposta anche l’attenzione alla casa della persona come vera “casa della salute”. Una casa non isolata ma connessa (vicinato, internet), non abbandonata ma sostenuta con strumenti nuovi (Budget di salute), con i servizi essenziali (basta sfratti, distacco utenze, e i senza tetto? ecc.). L’invito a restare a casa, a limitare i rischi, dato per ridurre il diffondersi dell’infezione, può essere l’occasione per un nuovo welfare di prossimità e di una nuova socialità.

In questo la società dell’innovazione può dare un forte contributo non solo negli ambiti del lavoro e istruzione (a distanza ecc.) ma anche nella cura (Home care, le nuove tecnologie). Un’innovazione dei servizi, ancora a volte legati a modalità operative rituali, un po’ ripetitive, burocratiche e talora inconcludenti (i tavoli ecc.).

L’ospedale segna la sua rivincita ritornando centrale come in passato o la crisi annuncia la necessità di un altro coraggioso passaggio nella ridefinizione delle sue funzioni e nel rapporto con il territorio? L’emergenza ha anche evidenziato come sia da rivedere la divisione fra Sanità Pubblica e Cure Primarie e come non risulti funzionale l’assetto di molti Servizi di Salute Mentale che sommata alla frammentazione dei Servizi Sociali rendono difficile il sostegno a domicilio delle persone più fragile e spesso povere.

Riprendere interesse a come vivono le persone, a come crescono, comunicano e relazionano, riporta al centro l’idea di destino comune, di impresa di comunità in grado di capire e vivere il territorio, l’ambiente e la qualità creando benessere.

Rispetto al coronavirus la società della conoscenza e della tecnica ha mostrato limiti e incertezze, comprese quelle tra i virologi. Una situazione che ancora non si è pienamente ricomposta. Abbiamo bisogno di studiare,  ricercare, sperimentare. Ma anche di capire quale possa/debba essere l’uso sociale e politico delle conoscenze e  delle scoperte (ad es. la lotta per i costosi farmaci anti HIV dei paesi poveri ecc.). Le indicazioni che si stanno dando sono ancora quelle di Semmelweis (1818-65)[4]. Rispetto alle malattie virali la medicina sa di più del passato ma ancora non ne conosce molti aspetti. Appare quindi grave aver trascurato la ricerca. Si assiste ad un’impreparazione generale nell’affrontare l’emergenza, pensata come “impossibile” ma testimoniata dal fatto che l’organizzazione sanitaria non riesce a proteggere adeguatamente gli operatori della sanità[5] risultando incapace di dotarli di dispositivi individuali di protezione. Carenze che sono un forte atto di accusa verso tutta la classe dirigente.

  1. e) Secondo le proiezioni, nel 2050 il pianeta avrà 10 miliardi di persone, una dimensione mai raggiunta che implica un altro rapporto con il territorio, le risorse, il clima. Servono nuove forme di relazione con gli animali, le piante e va ritrovato un equilibrio con la natura. Anche la spinta all’urbanizzazione, alla vita nelle città metropolitane con decine di milioni di abitanti vanno forse ripensate. Globale e locale sono scenari nuovi e inediti per l’umanità.

Sono bastate le misure antivirus e la velocità è diventata lentezza, le distanze si sono allungate, l’Europa e altri continenti ritornano lontani e irraggiungibili. Voli aerei, alte velocità diventano inutili, ritornano i confini (chiusi).

Se la globalizzazione è frutto di  un mix tra innovazione ed esiti del colonialismo, sotto l’egida di un sistema neoliberista e incentrato sul denaro come significante globale del valore (indici di borsa e spread anche in questi giorni connotano insieme ai dati sull’infezione il timing quotidiano) oggi la diffusione del coronavirus dimostra come vi sia bisogno di un’altra globalizzazione quella della solidarietà, della collaborazione, della pace, per un’umanità che sa fronteggiare il rischio derivante anche dal cambiamento climatico (rispetto al quale vi è ancora il negazionismo e l’inconcludenza della politica), al rischio chimico e nucleare.

  1. f) Nella società del rischio (Ulrich Beck)[6] si deve esplicitare come non esista il “rischio zero” ed occorra valutare rischi/benefici, condividerne le gestione attraverso la partecipazione per creare, insieme, sicurezza. Oggi nella valutazione entra la percezione del rischio la quale è fortemente deformata e sembrano non valere i dati statistici. Ad esempio i dati sulla criminalità, sugli omicidi non hanno avuto alcun effetto nel correggere la percezione del rischio di reati. Lo stesso parere degli esperti è stato più volte attaccato e ridicolizzato. Questo unito allo scarso prestigio della politica, che in passato ha avvallato anche tesi complottiste o strizzato l’occhio ai “no vax”.

I cittadini rispetto al coronavirus hanno avuto difficoltà ad avere una corretta percezione del rischio e di conseguenza delle condotte da tenere. Basta guardare le oscillazioni delle posizioni di diversi leader politici. Molti rischi per la salute sono taciuti (i morti per l’inquinamento dell’aria PM 2,5 e 5 sono circa 50mila all’anno) o fortemente opacizzati (tabacco, alcool, inquinanti ambientali, morti sul lavoro) pur essendo fortemente correlati con morbilità, mortalità non solo individuale ma anche degli altri (si pensi agli incidenti stradali). Solo la “droga” è oggetto di una persistente e inutile “guerra” che non produce effetti se non quelli di criminalizzare i consumatori e piccolo spaccio e di mantenere attivo un mercato sempre in espansione, anche grazie ad internet dove vengono commercializzate le nuove sostanze psicoattive (NSP). Con il coronavirus riemergono sottilmente nell’immaginario (e in internet) lo spettro della contaminazione, dell’igiene, del complotto. Temi che evocano anche inquietanti ricordi, specie se si collegano ad azioni che invocano ordine, pulizia, purezza e per qualcuno cinicamente, una sorta di “rottamazione” dei vecchi.

Di fronte al riapparire della morte nello scenario pubblico come pericolo (mentre per il singolo la morte per coronavirus avviene nella massima solitudine tecnologica, nell’isolamento dai parenti, senza religiosi), l’incombere della malattia che improvvisamente ed in modo imprevedibile, irrompe nella vita delle persone, la deformazione del rischio, la sua metamorfosi, da privato a pubblico rappresenta uno dei punti chiave nella ridefinizione del patto sociale, delle responsabilità e del rapporto tra gestione dei rischi/benefici e fra forme di governo (democrazia /dittature), diritti e doveri.

Insieme ai disturbi mentali, le malattie infettive vedono la possibilità di ordinare in forza di leggi provvedimenti sanitari obbligatori.  Una questione che anche recentemente ha visto opposizioni si pensi ai no vax che hanno per altro presentato una lista alle recenti elezioni nella Regione Emilia Romagna.

Il tema dei vaccini, al di là del merito, chiama in causa il rapporto volontarietà/obbligatorietà-coercizione e quindi quello dell’autodeterminazione. Se lo scopo dei provvedimenti sul coronavirus, a fin di bene, è quello di ridurne la diffusione attraverso la limitazione della libertà, credo possa aprire una questione molto profonda specie se dovesse prolungarsi nel tempo.

Le conseguenze della riduzione della socialità è già apparsa in tutta la sua drammaticità nelle carceri. Se vivono angosce, abbandono e disperazione le comunità chiuse possono divenire ambiti molto pericolosi.

“La guerra al virus prima di tutto”. Speriamo che le misure miranti a ridurre i contatti possano dare in tempi ragionevolmente brevi, risultati significativi. Tuttavia se il rischio dovesse continuare dovranno essere adottate altre misure.  Gli scenari futuri appaiono inquietanti e viene da chiedersi se si stia andando verso una “serrata generale” o “coprifuoco sanitario”?

Dovremo accettare una diffusione del virus rassegnandoci ad una sua (inevitabile) diffusione?

Certo se tutto dovesse continuare si dovranno trovare altre misure. Ad esempio non si può diffondere a tutta la popolazione strumenti per fronteggiare il rischio (ad esempio attraverso le mascherine protettive da usare obbligatoriamente, associate al lavaggio delle mani, e alle altre misure indicate nelle norme, nonché diffusione dei tamponi) trovando il modo di proteggere tutti e di ridurre al minimo l’impatto sulla libertà individuale?

A questo punto, per chiudere, la domanda che si ripropone è: a chi appartiene la vita? Sembrano tempi lontani, ma fino al dopoguerra la vita apparteneva allo Stato o a Dio (e per molti è ancora così).

Può appartenere ed essere della persona, costituiva della persona ma solo se questa la pensa come parte dell’altro, nella reciproca responsabilità e libertà. In questo momento la riconquista della libertà passa per la responsabilità e la partecipazione di tutti.

 

Pietro Pellegrini è Direttore Dipartimento Assistenziale Integrato Salute Mentale Dipendenze Patologiche Ausl di Parma

 

[1]Maciocco G. “I determinanti della salute. Una nuova, originale cornice concettuale” Saluteinternazionale.info, 2017

[2]Giuseppe Costa, Morena Stroscia, Nicolàs  Zengarini, Moreno Demaria (a cura di) “40 anni di salute a Torino. Spunti per leggere i bisogni e i risultati delle politiche” Ed. Inferenze, 2017

[3] Bauman Z. “Vite di scarto” Ed. Laterza, 2005

[4]  Celine L.F “Il dottor Semmelweis” Einaudi, 1975

[5]Bentramello C. “Salvare gli operatori sanitari” Saluteinternazionale.info scaricato 12 marzo 2020

[6] Beck U. “La società del rischio. Verso una seconda modernità”, 1986, Carocci Ed. 2000.

 

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