Anziani: il cohousing per uscire dall’isolamento di Sandro Polci

Il cohousing, cioè la condivisione di spazi e funzioni residenziali di nuova concezione, è una molla decisiva per migliorare le aspettative sulla qualità della vita di molti e soprattutto delle persone anziane; sia quelle che, economicamente serene, cercano condizioni migliori di socialità, di assistenza e di godimento del presente, sia quelle che, in difficoltà economiche cercano di minimizzare gli oneri abitativi e, più in generale, i costi per raggiungere un tenore di vita dignitoso. Tutto ciò è particolarmente rilevante per chi vive in città e soffre maggiormente la perdita di socialità, come sostiene anche Elena Granaglia in questo numero del Menabò.

Si sperimentino o meno difficoltà economiche, i benefici che scaturiscono dal cohousing sono comunque rilevanti. In particolare, in un paese come il nostro con il più alto indice di vecchiaia tra i paesi europei, permette di contrastare efficacemente il grande e insostenibile rischio dell’isolamento degli anziani. Nonostante i grandi miglioramenti nelle condizioni di salute di queste persone, il futuro rischia di portare con sé ‘sottrazioni vitali’, impedimenti che peggiorano la qualità della vita. Per questo è importante disporre di spazi personali o di coppia nonché poter svolgere attività in comune che rallegrino la giornata, anche riducendo i costi del proprio vivere e quindi aiutando l’economia domestica. L’elenco delle attività rilevanti può essere molto lungo: car sharing, foresteria condivisa per eventuali visite, giardinaggio e laboratori bricolage, corsi di ginnastica e terapia, gite, lezioni e tanta cultura.

Tuttavia, come ho sostenuto altrove (S. Polci, Condivisione residenziale. Il Silver Cohousing per la qualità urbana e sociale in terza età, Carocci Editore, 2013) l’attenzione maggiore dovrebbe essere prestata ai pensionati e al loro fine mese sempre più difficile da raggiungere; alla moltitudine dei meno garantiti e capaci di reddito, che vivono con oneri crescenti in alloggi spesso fatiscenti e subiscono una solitudine strisciante, dettata anche dal tramonto della famiglia patriarcale. Per loro, attori con scarso potere d’acquisto della cosiddetta Silver economy, la condivisione di spazi e funzioni residenziali di nuova concezione, in cui consiste il cohousing, appare di vitale importanza. E da qualche tempo la questione sembra ricevere l’attenzione che merita, viste le innovative applicazioni sperimentate, soprattutto all’estero e solo episodicamente nel Belpaese dove, peraltro, potrebbero non essere necessarie nuove costruzioni ma basterebbe razionalizzare il già esistente.

Infatti potrebbe essere sufficiente abbattere e riedificare edifici con modalità sostenibili, rinaturalizzando e riorganizzando gli spazi urbani e rifuggendo da nuovi disordini urbanistici. Ove mancassero le capacità imprenditoriali o le risorse economiche necessarie per progetti residenziali sostitutivi di rigenerazione urbana – che in ogni caso richiedono tempi lunghi – si dovrebbe razionalizzare l’esistente, favorendo forme di condivisione immobiliare, soprattutto nei numerosi appartamenti di grande dimensione, tipici delle “palazzine” anni 1970/2000.

E’ necessario cambiare cultura dell’abitare: nel secondo dopoguerra – “Piano Fanfani” – l’obiettivo era un vano per abitante – memori degli anni in cui la coabitazione costringeva famiglie intere in una sola stanza – ma oggi è ampiamente superata la media di due vani pro capite e, dunque, si pone il problema di come ottimizzare l’uso del patrimonio abitativo esistente, contrastando, al contempo, i mali molteplici (e costosi) della solitudine. La soluzione, a suo modo elementare, consiste nel considerare i beni immobiliari esistenti come beni razionalizzabili, parzialmente da condividere – ma nel pieno rispetto della privacy di ognuno – e da destinare a utilizzazioni che possono condurre a benefici significativi: possibilità di vivere in piena autonomia nei propri spazi essenziali (camera, bagno, spazio living); aumento del potere d’acquisto di una pensione modesta; godimento di una più efficace “assistenza attiva” da parte del servizio sociale, che vede concentrate le persone mature principalmente bisognose di assistenza; possibilità di evitare onerose e non necessarie ospedalizzazioni. Più in generale, tutti i benefici del ritorno a una maggiore socialità e condivisione.

Per meglio comprendere la rilevanza del fenomeno, esaminiamo brevemente alcuni dati. Nel 2030 saranno 2 miliardi di anziani nel mondo nel 2030. In Italia, negli ultimi 40 anni, gli over 65 sono più che raddoppiati (dal 9,5% ad oltre il 20%: 12 milioni e più): nel medesimo tempo la complessiva popolazione italiana è aumentata del 20%, quella anziana del 155%. Siamo quasi ad un anziano ogni 3 abitanti e i 20 genitori che vivono più a lungo non potranno, economicamente e socialmente, sostituire gli 11 figli che non nascono più! Più in dettaglio:

  • il numero di famiglie unipersonali è superiore a 7 milioni (oltre il 30% del totale);
  • le famiglie anziane unipersonali sono oltre 3,5 milioni;
  • le famiglie unipersonali over 75 anni sono oltre 2,3 milioni.
  • La condizione abitativa degli anziani, e in particolare degli anziani che vivono soli, evidenzia che:
  • il 32,70% degli anziani vive da solo in case di proprietà;
  • gli anziani che vivono soli, nel 61,2% dei casi posseggono un’abitazione con un numero di vani superiore a 4.

Inoltre le case dove vive un anziano di età superiore ai 65 anni sono state costruite, per quasi la metà, prima del 1961 e, in più del 50% dei casi non risultano essere state sottoposte ad interventi di manutenzione. Infine, oltre il 30% di queste abitazioni sono prive di ascensore.

Occorre, inoltre considerare che la maggioranza dei pensionati italiani percepisce una pensione inadeguata e ciò trova conferma nel fatto che circa l’80% del bilancio mensile di un pensionato è assorbito da tre voci: casa, bollette, spesa quotidiana. Significativa, in particolare, l’incidenza della spesa per la casa e per l’energia sul totale della spesa, pari a quasi il 50% del totale (per la fonte di questi dati e di quelli che seguono si rinvia a S. Polci, Condivisione residenziale, cit.), Sostanzialmente, una persona anziana “tipica” con una pensione mensile di 575 euro – cioè la media delle pensioni al di sotto di 1.000 euro – spende:

  • 275 euro per affitto/mutuo, bollette energetiche e altre utenze
  • 122 euro, per generi alimentari e bevande
  • 41 euro per trasporti e comunicazione
  • 28 euro per servizi sanitari e spese sanitarie;
  • 32 euro per spese legate alla casa;
  • 21 euro per il tempo libero e l’istruzione;
  • 40 euro per altre spese.

Inoltre, non va dimenticato cresce la domanda di assistenza sociale e sanitaria, sia “long term care”, sia di residenzialità attiva.

In questo contesto si comprende l’importanza e la potenziale utilità di una proposta che miri a ottimizzare l’uso del patrimonio immobiliare urbano del 20° secolo e del secondo dopoguerra in particolare. Ci troviamo di fronte, soprattutto nel secondo caso, ad alloggi di dimensione media prossima ai 90/100 metri quadri o più grandi. Considerando lo spazio essenziale per la persona di circa mq. 30 (e in proporzione maggiore per l’eventuale coppia), è pensabile ottenere 2-3 unità autonome oltre uno spazio soggiorno e cucina condiviso (più eventuali balconi, terrazze, giardino (privato e/o condominiale) ed eventuale garage. La vita di gruppo si manifesterebbe nelle funzioni domestiche principali (spesa quotidiana, gestione cucina, piccole pulizie, ecc.) e in quelle di intrattenimento (conversazione, televisione, gioco delle carte e altre funzioni condivise) mentre l’autonomia sarebbe totale nello spazio riservato.

La stima è che per ogni nucleo di coabitazione e condivisione, si generi un risparmio pari a 352 euro al mese per nuclei di 2 persone e fino a 1.028 euro al mese per un nucleo di 4 persone. Si tratta di risorse che, una volta liberate, possono consentire notevoli miglioramenti della qualità della vita, favorendo consumi che migliorano il benessere nell’immediato ovvero risparmi che rendono il futuro più tranquillo.

Inoltre il modello di cohousing favorisce la riduzione anche dell’ospedalizzazione non acuta degli anziani, che possono essere accuditi con maggior efficacia nella propria casa, con riduzioni significative dei costi relativi alle giornate di ospedalizzazione. Si stima che una mensilità pensionistica è spesso inferiore al costo di una sola giornata di ospedalizzazione.

Tutto ciò rende evidente che una politica con queste caratteristiche non sarebbe solo una razionalizzazione edilizia ma anche la risposta a una opzione culturale e sociale precisa: condividere per vivere meglio (insieme). Anche per questo i risultati dipenderanno dall’essenziale lavoro di “mediazione culturale e affettiva” che giovani esperti potranno compiere vigilando sulla qualità della convivenza e sulle piccole necessità della tarda età.

Una politica di questo tipo avrebbe ulteriori conseguenze positive. A livello nazionaleutilizzando anche soltanto il 5% o il 10% del patrimonio immobiliare liberabile (Fonte Istat), significherebbe reimmettere nel mercato da 100 a 200mila alloggi, oggi occupati da un anziano solo che decide di condividere: un ottimo plafond per avviare politiche di social housing, oggi limitatissime, su tutto il territorio nazionale.

Inoltre gli effetti di tale politica sul 5- 10% della popolazione anziana che vive sola sarebbero tali da   liberare risorse economiche variabili da circa 400 milioni a 2,4 miliardi di euro. E di tali risorse potrebbero beneficiare anche le casse dello Stato, i particolare come maggiori entrate dall’IVA sui consumi che potrebbero raggiungere i 200 milioni di euro.

Ulteriori benefici consisterebbero nella riqualificazione del patrimonio edificato, adattandolo alle esigenze di completa fruizione, al risparmio e all’efficientamento energetico e alla sicurezza urbana. In sostanza il silver cohousing si presenta come un vero e proprio piano strategico per:

  • rendere almeno il 30% della pensione di chi condivide, disponibile per aumentare il proprio benessere;
  • utilizzare al meglio il patrimonio immobiliare oggi male utilizzato e mal distribuito sul territorio e nelle città in ragione delle effettive necessità degli utenti e dei proprietari o degli affittuari, liberando alloggi che, con opportuni investimenti e riammodernamenti, possono essere immessi nel circolo virtuoso del social housing;
  • evitare di consumare nuovo territorio, con beneficio per le valenze paesaggistiche e agricole;
  • liberare la popolazione anziana dalla solitudine, dall’isolamento e dall’esclusione sociale, superando i problemi di incuria e di mancata assistenza, con una migliore gestione anche di situazioni critiche;
  • superare le difficoltà legate alle cure sanitarie a favore di una assistenza domiciliare che garantisca una residenzialità attiva e un invecchiamento sereno, nonché promuovendo forme di assistenza domiciliare meglio organizzate e in grado di recuperare risorse alla sanità pubblica grazie anche ai risparmi generati dalle minori ospedalizzazioni che il sistema consente.

Prima di concludere vorrei, con soddisfazione, segnalare che verifico il diffondersi di esperimenti interessanti e di successo. Ricordo, in particolare, quelli delle periferie metropolitane favoriti dalla Comunità di Sant’Egidio ma anche molti casi isolati, con gruppi di cittadini o progettisti che hanno sviluppato un ruolo da developer, aggregando la domanda esistente, stimolando quella “latente” e mediando esigenze, risorse e tempi. Cruciale per il successo di iniziative di silver cohousing è, comunque, il coinvolgimento dei livelli amministrativi locali che favorisca l’affermarsi di modalità operative condivise e certe, relative, ad esempio, al ruolo di garante del turnover da parte dell’ente locale, ai micro-prestiti con fondo di rotazione per le manutenzioni e all’indispensabile cornice di rigenerazione urbana che riesca a conciliare il beneficio del singolo con il miglioramento complessivo della qualità del territorio. In breve, un entusiasmante lavoro da fare…

fonte: ETICAECONOMIA

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