Rider e welfare aziendale: è il vecchio che avanza? di Giuliano Guietti

«Padrone del tuo destino. Te la senti?» Non credo che nella realtà si usi davvero una formula così enfatica come quella rappresentata nell’ultimo film di Ken Loach, per formulare la proposta di lavorare come addetto alle consegne a domicilio. Però il concetto è simile: non sei mio dipendente, non ti assumo, ma sono disponibile a inserirti nella mia attività, pagandoti fondamentalmente in base al numero delle consegne. Più consegni e più ti pago, meno storie fai e più ti faccio lavorare. Niente ferie, niente diritti, se ti ammali sono fatti tuoi, insomma sei … “padrone del tuo destino”.

È un tipo di attività che negli ultimi anni si è molto più diffusa rispetto al passato, grazie soprattutto al proliferare delle piattaforme online, ma che è ancora difficile dimensionare quantitativamente. Non si tratta del complesso dei “lavoratori delle piattaforme”, formula entro la quale rientrano anche altre tipologie lavorative, a partire dal cosiddetto crowdwork, ossia lavoro offerto e prestato direttamente online. Quello delle consegne a domicilio è invece un lavoro prestato nel mondo reale, con utilizzo di propri mezzi di trasporto, nel quale la connessione in rete ha principalmente lo scopo di ricevere gli ordini da evadere e di essere monitorati nel corso della loro esecuzione. È un lavoro che rientra certamente nell’ambito della cosiddetta gig economy, ovvero “economia dei lavoretti”, di cui costituisce, almeno nell’accezione data in Italia a questi termini, una delle componenti fondamentali.

È questo uno dei temi affrontati nel volume collettaneo curato da Alessandro Somma Lavoro alla spina e Welfare à la carte (Meltemi editore), che sarà presentato a Bologna, presso la Camera del Lavoro, il prossimo 14 febbraio. “Lavoro alla spina” ovvero worker on tap è un’espressione utilizzata per la prima volta dal settimanale Economist per sintetizzare con una certa efficacia un tipo di lavoro prestato solo al bisogno, on demand, come avviene appunto nel caso dei rider (in italiano si direbbe più prosaicamente ciclofattorini) o degli altri addetti alle consegne a domicilio.

L’altro tema affrontato dal volume è, come si evince dal titolo, quello del welfare aziendale. Si tratta di un tema ovviamente molto diverso, ma comunque un altro aspetto alquanto problematico delle trasformazioni in corso nella società e nel mondo del lavoro. Somma ricorda come il welfare aziendale nasca nella Prussia ottocentesca per frenare la crescita del movimento operaio e socialista, per concludere che c’è un rischio che in fondo lo accomuna al lavoro on demand reso sulle piattaforme digitali: quello “che il superamento del Novecento, tanto auspicato dai sacerdoti dell’ortodossia neoliberale [costituisca] a ben vedere un drammatico ritorno all’Ottocento”.

Tornando ai cosiddetti gig wokers, nel corso di una recente audizione parlamentare l’Inapp (ex Isfol) ha stimato che siano in Italia circa 213.000, neanche un decimo di quanti complessivamente traggono dal lavoro tramite piattaforma digitale la loro principale fonte di sussistenza, meno dell’1% del totale degli occupati nel nostro Paese. Ma la loro rilevanza, ciò che li ha messi sempre più spesso al centro dell’attenzione in questi ultimi anni, risiede da un lato nei formidabili tassi di crescita del fenomeno, dall’altro nei temi in parte inediti che esso pone dal punto di vista della regolazione normativo/contrattuale e in particolare della tutela dei lavoratori.

A dire il vero non è una novità la tendenza di molte imprese a cercare di riconoscere e retribuire solo la quantità di lavoro strettamente necessaria alla propria attività, come se il lavoro umano fosse riconducibile ad un bene tra gli altri, scambiabile sul mercato esattamente come tutti gli altri. “Emerge – scrive Francesco Garibaldo in uno dei saggi contenuti nel volume – una pulsione base del capitalismo, in tutte le sue diverse configurazioni: pagare la nuda fornitura di lavoro qui e ora”.

Né si può ritenere nuova la strategia dell’occultamento, da parte del datore di lavoro, del proprio ruolo reale, in modo da sollevare se stesso da tutte le responsabilità che esso comporta: è quella che lo stesso Somma definisce con un’efficace neologismo “voucherizzazione del lavoro”. Nuove sono invece le strumentazioni che vengono utilizzate per perseguire questi scopi: in particolare le cosiddette piattaforme digitali attraverso le quali domanda e offerta si incontrano.

C’è soprattutto un fondamentale aspetto giuridico sul quale sia il legislatore sia alcune recenti sentenze giudiziali si sono esercitati: questi lavoratori sono inquadrabili nel profilo della subordinazione, con tutte le tutele che ne conseguono, o in quello dell’autonomia?

In verità anche la contrattazione ha provato a dire più o meno direttamente la sua in proposito. Lo ha fatto in alcune realtà locali attraverso l’elaborazione di specifiche “carte dei diritti” sottoscritte dalle amministrazioni locali. La strada è stata in qualche modo tracciata da quella firmata a Bologna nel maggio del 2018 con l’intento di estendere ai lavoratori digitali, a prescindere dalla configurazione giuridica del loro rapporto di lavoro, alcuni diritti tipici del lavoro subordinato, quali il diritto all’informazione, a un equo e dignitoso compenso, alla salute e sicurezza, all’“astensione collettiva dal lavoro per un fine comune”, cioè allo sciopero.

Pochi mesi dopo, nel luglio 2018, il sindacato di categoria dei trasporti (Filt – Cgil, Fit – Cisl e Uiltrasporti) ha ottenuto l’inserimento nel contratto nazionale del settore “logistica, trasporto merci e spedizioni” di un capitolo specifico dedicato a “distribuzione delle merci con cicli, ciclomotori e motocicli”, una scelta che chiaramente presuppone l’inquadramento di questi lavoratori tra quelli soggetti a subordinazione. Il problema è però che questi lavoratori vengono normalmente ingaggiati con contratti che, quando esistono, hanno la forma del lavoro autonomo: principalmente collaborazione coordinata e continuativa, collaborazione occasionale di lavoro autonomo oppure partita Iva.

Alcuni provvedimenti legislativi hanno cercato negli ultimi anni di intervenire su questi temi, a partire dal decreto legislativo n.81 del 2015, che cercava all’art.2 di estendere la disciplina del lavoro subordinato anche ad alcuni rapporti di collaborazione, producendo effetti però scarsi e controversi, al punto che il governo attualmente in carica ha ritenuto di modificare quell’articolo con un decreto legge (n.101/2019) poi convertito con modificazioni nella legge 2 novembre 2019 n.218. Volontà dichiarata di queste modifiche è rendere più cogente l’applicazione della disciplina del lavoro subordinato e più precisa l’indicazione relativa ai rapporti di collaborazione ai quali applicarla. In ambito giurisprudenziale ha così iniziato a farsi strada l’idea che si potesse configurare una sorta di “terzo genere” di rapporto di lavoro, a metà strada tra il subordinato e l’autonomo.

Da ultimo una recentissima sentenza della Corte di Cassazione (24 gennaio 2020) ha fornito un’ulteriore chiave interpretativa. Intervenendo su un ricorso di Foodora, una delle principali aziende di fornitura di pasti a domicilio, avverso a una precedente sentenza del tribunale di Torino, la Cassazione ha infatti distinto tra “la fase genetica del rapporto di lavoro”, nella quale prevarrebbe l’autonomia del lavoratore, e la fase “funzionale di esecuzione del rapporto” nella quale è preminente il requisito della “etero-organizzazione”, cioè dell’obbligo del lavoratore di attenersi alle indicazioni e alle regole imposte dall’azienda, così da far ricadere il rapporto di lavoro, in base all’art.2 sopra citato e ancor più nella nuova versione modificata, nell’ambito di applicazione della disciplina del lavoro subordinato.

Comunque sia, risulta evidente come la disciplina da applicare a questi lavoratori rappresenti la punta emergente di un tema ancora più complesso, che riguarda in sintesi la necessità di un aggiornamento radicale delle norme di tutela del lavoro di fronte alla trasformazione profonda che esso sta subendo per effetto dell’affermarsi di nuove tecnologie a base digitale. In questo quadro, il caso dei rider è forse anche, almeno teoricamente e al di là dell’ovvia resistenza delle imprese interessate, uno dei più semplici da affrontare, essendo difficile mettere in discussione il carattere sostanzialmente subordinato di questo tipo di attività. Ci sono molte altre tipologie di lavoro, soprattutto quelle caratterizzate da un forte contenuto cognitivo, alcune delle quali rese tramite piattaforme digitali, nelle quali il confine tra subordinazione e autonomia appare oggettivamente più sfumato, ma che non per questo sono meno bisognose di qualche forma di tutela. Sarà uno dei temi che nei prossimi anni occuperanno non poco i legislatori ma forse, auspicabilmente, anche le organizzazioni di rappresentanza dei lavoratori.

Giuliano Guietti, presidente Ires Cgil Emilia-Romagna

fonte: RASSEGNA SINDACALE

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