Sanremo da sempre porta la disabilità sul palco; alcuni esempi: José Feliciano, Aleandro Baldi, Ezio Bosso, Stevie Wonder, Pierangelo Bertoli, Simona Atzori, Andrea Bocelli.
Quest’anno, oltre a Gessica Notaro bendata ad un occhio, è arrivata poderosa, lancinante e sublime la presenza di Paolo Palumbo. Più che una performance canora e umana, una lectio magistralis dai molteplici piani interpretativi. Tutti tonanti, ne scelgo uno. Il più effimero.
Palumbo è un ragazzo che muove solo gli occhi, per via della SLA (sclerosi laterale amiotrofica). È arrivata a 17 anni ed è progredita, perché la SLA progredisce con ritmi diversi per ognuno, ma è inesorabile. Non respira autonomamente, non mangia come la maggior parte delle persone, fa un uso molto più sensato della tecnologia della stessa moltitudine che lo apprezza ed è circondato da una famiglia straordinaria.
Quasi tutte le famiglie con disabilità sono famiglie straordinarie e ognuna ha il diritto di essere celebrata per come ti lascia senza fiato per la potenza dei sentimenti che vedi circolare. Ma non è questo il punto. Cioè non del tutto.
Paolo, oltre a molto altro, è un cantautore e sul palcoscenico ha cantato come ospite per volere di Amadeus, assieme a Cristian Pintus (in arte Kumalibre). Ha interpretato la canzone autobiografica di cui è autore di testo e musica, intitolata Io sono Paolo. Senza voce, lo ha fatto attraverso quella sintetica di un computer che intercetta i movimenti degli occhi per mutarli in segnali che è in grado di interpretare. Così, con meno scioltezza di quanto non sembri dalla spiegazione, si possono fare molte cose al computer fra cui scrivere messaggi precompilati che la macchina può leggere al momento giusto. Come è successo l’altra sera in televisione, al di là di qualche fisiologico inceppo.
Adagiato sulla carrozzina moderna, il tubo del respiratore a dargli fiato e il computer proteso su di lui come in un film di fantascienza, è emersa l’importanza della tecnologia nella vita di chef Paolo. Ma non è questo il punto. Cioè non del tutto.
Vestito in maniera così raffinata che persino il tubo del respiratore sembrava un ricercato accessorio, Paolo aveva a fianco il fratello. Un bel giovane che è stata delicata cornice alle sue parole. Parole grevi enunciate con carattere e levità.
Ti sbaraglia sentirti dire che «bisogna provarle tutte per vivere». Quando parla di fortuna di essere vivi dopo essersi svegliato da una crisi respiratoria, ti dà un bel pensare, sedimentati nella nostra convinzione che svegliarsi da paralizzati, benché lo si fosse anche prima, sia un’ambìta realtà invece che un incubo.
E quando invita a vivere senza perdere un minuto? Ricorda di ciondolarci nelle proprie vite senza avere omesso di dire ti amo a qualcuno. Senza avere inseguito i nostri sogni, anche l’idea del lavoro ideale. Dice: «Date al mondo il lato migliore di voi e vedrete che le cose andranno meglio». E parla di cambiamento della mente, perché «è lì che stagnano le disabilità più pericolose, come la mancanza di empatia e tolleranza». E te lo sbatte in faccia, con il sorriso sulle labbra.
Da brivido. Da imbarazzo interiore. Ma non è questo il punto. Cioè non del tutto.
Inequivocabile che quella di Paolo Palumbo – che ama la cucina, che ha portato i diritti delle persone con disabilità in giro per il mondo e che è una persona geniale – sia quella che si dice una lezione forte. Intensa poiché intrisa di grandi insegnamenti frammisti a potenti esortazioni, enunciati attraverso la propria testimonianza di vita. Quel che dice è tutto vero perché lo dimostra con la vita: per questo arriva allo stomaco.
Il suo è un inno alla vita inciso nella roccia così pervicacemente nell’attualità umana che molti non vogliono accettarlo, abituati come sono alla loro vita di ordinario orrore verso l’estremo dramma umano. Il dramma visto da fuori, da dove le cose appaiono diverse. E qui arriva quella che io ritengo la vera lezione di Paolo. La sua dotta lezione.
Paolo ci ha mostrato cos’è la disabilità: una persona con la sua condizione fisica e il suo ambiente. Ci siamo turbati di fronte a uno stato di salute estremo. Abbiamo apprezzato la tecnologia. Abbiamo ammirato una famiglia. Paolo ci ha fatto vedere che di fronte alla disabilità il carattere si può esprimere, se esistono tecnologie e rapporti umani adeguati, cioè un ambiente favorevole. Questa è la disabilità e questo è come si riduce. Grazie Paolo.
Il presente testo è già apparso in “InVisibili”, blog del «Corriere della Sera.it» (con il titolo “Dal palco dell’Ariston Paolo Palumbo ci insegna cos’è la disabilità”). Viene qui ripreso, con alcuni riadattamenti al diverso contenitore, per gentile concessione.
fonte: SUPERANDO