La proposta di Franco Corleone di abolire la non imputabilità per infermità mentale, superare quindi il c.d. “doppio binario” e di fatto scardinare la distinzione tra pene e misure di sicurezza ha suscitato interesse e dibattito e sembra doversi confrontare, tralasciando gli aspetti più strettamente giuridici, con due diverse preoccupazioni operative.
La prima è quella di chi teme la permanenza in carcere di un numero crescente malati mentali privandoli del diritto alla cura aggravando la già difficile situazione degli Istituti di Pena;
la seconda è che si (ri)crei un duplice sistema in ambito penitenziario e/o territoriale in base al quale l’autore di reato con disturbi mentali “non verrebbe sottoposto ad una normale pena in un istituto carcerario, ma collocato in una delle cosiddette articolazioni psichiatriche, ossia all’interno di un servizio o un luogo apposito per persone con disturbo mentale all’interno del carcere, riproponendo paradossalmente proprio il doppio binario che si vuole superare”(Mezzina, 2020).
Due preoccupazioni molto serie che, seppure in modo diverso, pongono il tema della cura nell’ambito del sistema penale. Un punto cruciale per affrontare il quale è necessaria una riesplicitazione della tipologia quali-quantitativa e del senso di entrambe le misure. Oggi la cura deve fondarsi su un approccio biopsicosociale, le migliori conoscenze scientifiche e basarsi, di norma, sul consenso (legge 219/2017) mentre è necessario aggiornare e rivedere le misure giudiziarie, le pene in particolare, che oltre alle finalità retributive, hanno funzioni rieducative volte a favorire l’inclusione sociale nonché a ridurre le recidive e di tutela della sicurezza.
Il codice penale del 1930 fa riferimento alla legge 36/1904 sui manicomi che a partire da una visione del malato come “pericoloso a sé e agli altri”, attua un modello di tipo custodiale che tende a concentrare in unico ambito le persone con disturbi mentali autori di reato.
Le leggi 180/1978 e 81/2014, che hanno chiuso OP e OPG, riconoscono i diritti da attuarsi nella comunità sociale. Il processo di soggettivazione in un quadro di libertà e responsabilità è essenziale per il programma di cura e il progetto di vita. Quindi deve vedere non solo il riconoscimento della imputabilità della persona ma anche una pluralità di interventi che vanno al di là della psichiatria, ma riguardano il sociale, l’educazione, la cultura.
Nel processo di restituzione dei diritti è implicito ma ineludibile che i diritti individuali fondamentali siano accompagnati dai diritti sociali. La persona appartiene a se stessa e non ad una istituzione, quella psichiatrica.
Speculare a questo vi è anche che l’autore di reato non appartiene al settore penale, ad un altro mondo a parte ma rimane sempre cittadino. L’idea che si creino due circuiti, uno per i sani e l’altro per chi ha disturbi mentali è figlia di una vecchia impostazione sia per quanto attiene alla salute mentale sia per il senso del sistema penale. E’ necessario quindi prendere atto dei progressi intervenuti in entrambi gli ambiti e per ciascun caso dovranno essere tenuti presenti i bisogni di cura e di recupero ma anche le necessità di sicurezza. Un’interazione virtuosa che può dare nuove prospettive ad entrambi gli ambiti. In questo senso va la sentenza n. 99/2019 della Corte Costituzionale la quale ha esplicitato come la persona con infermità psichiche sopravvenute in carcere possa usufruire di misure alternative mediante un ragionevole bilanciamento tra i diritti della persona e la sicurezza della collettività.
Si può aggiungere che questo implica la necessità di rivedere le funzioni delle pene mediante un ripensamento degli istituti di pena, una diversa strutturazione delle Articolazioni tutela salute mentale, la proposizione di altre soluzioni interne o esterne agli stessi istituti. La mera privazione della libertà ha limiti e rischi evidenti. Occorre un’analisi sui determinanti biologici, psicologici, sociali agendo in primis su quelli più facilmente rilevabili e modificabili. Ad esempio il riconoscimento della residenza anagrafica, la collocazione intraregionale, la vicinanza alla famiglia, la tutela della affettività, della genitorialità, della sessualità. Servono interventi diversi, articolati, aggiornati anche dal punto di vista tecnico scientifico per prendersi cura di autori di reati molto gravi a danno di minori e donne, sex offender ed altri.
Il disagio degli Istituti penitenziari, con un tasso di suicidi elevati sia nei detenuti che nella Polizia Penitenziaria, richiede investimenti nell’ambito di un’azione riformatrice che sappia andare oltre l’idea di espellere i malati mentali, o per lo meno quelli più “disturbanti”. I problemi vanno ricollocati nel loro contesto responsabilizzando ogni persona e comunità. Questo significa andare oltre le posizioni giustizialiste, quasi vendicative (più pene, “buttare le chiavi”, “marcire in galera”) e ritrovare il senso della complessità, la possibilità che azioni di cura e giudiziarie, entrambe sempre necessarie e con proprie specifiche competenze, siano in grado di collaborare al meglio. Non si tratta quindi di un processo di delega reciproca ma di creare una condizione nella quale per ciascuna persona, con il suo pieno coinvolgimento, viene articolato il migliore programma di cura, percorso di recupero nell’ambito di un proprio progetto di vita. Se gli Istituiti di Pena richiedono un ripensamento interno anche in relazione al loro utilizzo, specie per problemi connessi all’uso di sostanze, ritengo doveroso affrontare le contraddizioni partendo dalle pratiche, dallo stato della Articolazioni tutela salute mentale anche per aprire nuove prospettive, sperimentazioni, misure alternative.
Per i malati mentali autori di reato, in relazione al processo di chiusura degli OPG, il Comitato Nazionale di Bioetica e il Consiglio Superiore della Magistratura hanno sollecitato la collaborazione interistituzionale che si è tradotta in alcuni protocolli regionali. Questo impianto vale anche per tutte le persone autrici di reato. Occorre chiedersi quali siano i sistemi più efficaci ed efficienti in modo da giungere ad una corretta allocazione delle risorse che tenga conto degli esiti e non miri solamente ad assicurare la pena. I dati sulle recidive nei reati dei soggetti che usufruiscono di misure alternative e di esperienze lavorative sono al quanto significativi.
D’altra parte, in un Paese che vede una rilevante presenza della criminalità organizzata vanno tenute in adeguata considerazioni la elevata pericolosità criminale e il bisogno di sicurezza. Queste componenti talora sono presenti anche in persone con psicopatia grave, con condotte antisociali e forme psichiatriche resistenti ai trattamenti che talora minacciano pesantemente anche gli operatori della salute mentale o dei servizi sociali. Soggetti per i quali è necessario un lavoro congiunto, anche sperimentale, per la cura possibile e al contempo per un’adeguata tutela della sicurezza. Quindi non si tratta di assicurare sempre e comunque misure alternative al malato mentale.
Le esperienze di chiusura degli OPG, pur condotte senza una regia nazionale, stanno dimostrando che il nuovo sistema sembra poter funzionare. Infatti si stimano in circa 6.000 i pazienti seguiti nel territorio. Le 31 REMS, molto diverse fra di loro, hanno un buon turnover e il 67% dei pazienti accolti nei primi tre anni sono stati dimessi. Tuttavia hanno seri connotati custodiali, certe persone sono di difficile gestione e altre rischiano di restare a lungo in attesa o di essere abbandonate. Il rischio di una regressione delle REMS e di una progressiva occupazione “giudiziaria” delle strutture dei dipartimenti di salute mentale necessita di una riflessione su devianza e conflitto, fino alle funzioni delle pene affinché siano più efficaci sia per le persone che per la sicurezza della comunità. Per la cura si può operare solo nel consenso, favorendo la responsabilità e il protagonismo mediante percorsi di capacitazione mediante l’utilizzo dello strumento Budget di Salute.
La salute mentale, ed in particolare l’attuazione delle leggi 180 e 81, richiedono un efficiente sistema di welfare pubblico universalistico in grado di assicurare in modo unitario i diritti individuali e sociali come previsto dalla Costituzione. Serve un “doppio patto” uno per la cura e l’altro per la sicurezza. La proposta di riforma dell’imputabilità non mira affatto a negare il disturbo mentale ma a responsabilizzare la persona rispetto all’agito. Il fatto-reato è ben presente nella vita psichica della persona che chiede di essere accettata in modo non giudicante, di trovare un senso, premessa di un percorso riparativo e per quanto possibile di conciliazione. E’ quindi fondamentale anche per i percorsi di cura un riconoscere l’imputabilità, valutare l’atto per la sua motivazione e le sue conseguenze attraverso una sentenza che dia certezze, rispetto a poco comprensibili proscioglimenti e a kafkiane misure di sicurezza. Poi l’esecuzione della pena terrà conto del trattamento dei disturbi mentali considerando al contempo le necessità di sicurezza.
Diverse proposte interessanti sono state formulate dagli Stati Generali per l’Esecuzione della Pena e dalla Commissione Pelissero. Se la politica ritrova il coraggio delle sfide difficili, l’iniziativa di Corleone rilancia un dibattito per un’azione riformatrice in grado di superare le contraddizioni del codice penale che può/deve mettere in moto un processo di innovazione dei servizi senza il quale i problemi rischiano di restare irrisolti mettendo in crisi le buone pratiche, facendo così fallire una rivoluzione straordinaria, di civiltà e umanità.