Divari di genere: più trasparenza per limitarli ? di Alessandra Casarico, Salvatore Lattanzio

La riduzione dei divari di genere nel mercato del lavoro passa anche da una maggiore consapevolezza delle imprese. E gli obblighi di comunicazione dei dati sulle retribuzioni e sugli occupati uomini e donne possono essere uno strumento importante.

Ridurre i divari di genere nel mercato del lavoro rimane un compito prioritario, ma difficile da realizzare. È della scorsa settimana la risoluzione del Parlamento europeo sul gender pay gap, che invita gli stati membri ad adottare politiche più decise per contrastare il fenomeno.

Intanto, è in corso nel nostro Parlamento un dibattito su diverse proposte di legge di modifica del Codice delle pari opportunità (decreto legislativo 198 del 2006) per rendere più vincolanti per le imprese gli obblighi di comunicazione dei dati sulle retribuzioni e sugli occupati uomini e donne. In particolare, la discussione verte su tre elementi chiave: la soglia in termini di dimensione dell’impresa a cui applicare quegli obblighi; il tipo di informazioni richieste alle imprese e i destinatari della loro raccolta; la previsione di sanzioni per le aziende che non ottemperino all’obbligo di presentazione dei dati.

L’obbligo di comunicazione: perché e per chi

Il rafforzamento degli obblighi di reporting ha tra gli obiettivi quello di incentivare un processo virtuoso, che porti le imprese ad assumere maggiore consapevolezza sulla propria struttura occupazionale e di retribuzione in un’ottica di genere e allo stesso tempo aiutare a evidenziare eventuali fenomeni discriminatori. Gli esempi in ambito internazionale non mancano: Regno Unito, Danimarca, Svizzera, Francia e Austria sono alcuni tra i paesi che obbligano le imprese a redigere rapporti e comunicare statistiche sul personale maschile e femminile e le relative retribuzioni.

In Italia, il Codice delle pari opportunità prevede una soglia a 100 dipendenti; il decreto legislativo 254 del 2016 sulla rendicontazione non finanziaria richiede alle imprese con almeno 500 dipendenti di indicare i risultati attinenti alla gestione non finanziaria, tra cui le misure per la parità di genere. Nel Regno Unito e in Francia le imprese con più di 250 dipendenti sono obbligate a pubblicare annualmente i dati relativi al gender pay gap, mentre in Danimarca e Svizzera le soglie sono fissate, rispettivamente, a 35 e 50 dipendenti. In Austria, si è optato per un ampliamento progressivo della platea delle aziende interessate, partendo da quelle più grandi.

Se in Italia la soglia sarà mantenuta a 100 dipendenti, l’obbligo di reporting continuerà a coprire una percentuale piccola di imprese del settore privato (circa il 4 per cento del totale di imprese con addetti, sulla base di un campione di dati Inps), che impiega però il 40 per cento della forza lavoro nello stesso settore. Se la soglia scendesse a 50 dipendenti, la copertura salirebbe a circa il 48 per cento. Queste informazioni possono essere lette insieme a quelle riportate in figura 1, che mostra come il differenziale salariale di genere aumenti al crescere della classe dimensionale dell’impresa. Nelle grandi imprese la struttura gerarchica è più articolata e la segregazione verticale – una componente importante del differenziale salariale di genere – si manifesta in modo più significativo. L’attenzione, almeno in una fase iniziale, sulle imprese più grandi può essere quindi giustificata dalla più ampia rilevanza del fenomeno che si vuole tenere sotto controllo.

Figura 1 GENDER PAY PER CLASSE DIMENSIONALE DELL’IMPRESA

Le informazioni da chiedere

Scelte le imprese, quali informazioni richiedere? Nel Regno Unito, le imprese con più di 250 dipendenti sono obbligate a fornire informazioni sul differenziale di genere medio e mediano nei salari e nei bonus e la distribuzione di lavoratori e lavoratrici per quartili di salario. Nelle discussioni in corso sulle possibili modifiche da apportare alla normativa, si propone di introdurre l’obbligo di reporting sulla durata dei congedi parentali e sull’esperienza lavorativa maturata nell’impresa.

Potrebbe essere una buona base da cui partire in Italia. Naturalmente, il tipo e la quantità di dati che le imprese dovrebbero fornire dipendono dalla soglia alla quale si decide di applicare gli obblighi di reporting. Chiedere statistiche sul divario salariale medio o mediano in imprese con pochi dipendenti sarebbe poco sensato.

Chi sono i destinatari dei dati raccolti? Nel Regno Unito c’è un portale dedicato al gender pay gap reporting, consultabile da chiunque sia interessato. È anche possibile vedere l’elenco delle imprese che non hanno ottemperato agli obblighi di reporting e quali azioni sono state adottate in caso di violazione della legge. La leva della trasparenza – una sorta di “lista nera” (name and shame) – è quindi utilizzata come incentivo per far rispettare l’obbligo di legge e fornire correttamente i dati, anche se alcuni dubitano della sua reale efficacia, senza esplicite sanzioni. In Austria e Belgio si mantiene invece la confidenzialità dei rapporti, il che limita i costi (o i benefici) reputazionali dei differenziali di genere in azienda.

La situazione in Italia

Qual è la situazione in Italia? Il Codice delle pari opportunità, con l’articolo 46 – che riprende l’articolo 9 della legge 191 del 1991 –, obbliga le imprese con più di 100 dipendenti a redigere un rapporto almeno biennale sulla situazione del personale maschile e femminile e sulle retribuzioni. I dati sulle imprese che hanno rispettato l’obbligo non sono pubblici, così come le informazioni da loro fornite, se non in forma aggregata, ad esempio a livello regionale. Le sanzioni previste in caso di inottemperanza sono blande e, sembra, per lo più inapplicate. Gli incentivi – reputazionali o finanziari – a rispettare l’obbligo sono quindi limitati, il che può avere un impatto sull’efficacia della norma.

La figura 2 mostra l’evoluzione del divario di genere nei salari medi maschili e femminili. In particolare, indica i dati per le imprese con 51-100 dipendenti, non interessate dall’obbligo di redazione, e per quelle con 101-200 dipendenti, soggette agli obblighi. L’evidenza è solo descrittiva, ma suggerisce che l’introduzione o la modifica dell’obbligo di redazione del rapporto, in un contesto di generale diminuzione del divario salariale di genere, non abbia portato a una sua diversa evoluzione nelle imprese con più di 100 dipendenti. La medesima conclusione vale per altri indicatori, come la percentuale di donne, la percentuale di donne dirigenti, il divario nei salari annuali o settimanali.

Figura 2 – Evoluzione del divario di genere nei salari giornalieri tempo pieno equivalenti per classe dimensionale dell’impresa (51-100 dipendenti e 101-200 dipendenti)

Fonte: Elaborazione degli autori su un campione di dati Inps sul settore privato

Trasparenza all’esterno e sanzioni sono quindi due elementi critici se vogliamo sperare che la legislazione sugli obblighi di informativa sul personale abbia efficacia. È anche possibile che la rilevanza dell’uno o dell’altro strumento nel ridurre i differenziali di genere dipenda dalla dimensione dell’impresa (riportandoci alla discussione sulla soglia): i meccanismi reputazionali possono funzionare meglio sulle grandi imprese, mentre la previsione di sanzioni può incidere di più su quelle di dimensione inferiore.

Possono esserci effetti indesiderati? Alcuni sottolineano come le imprese potrebbero assumere meno donne nei ranghi bassi, ricorrendo all’outsourcing, al solo scopo di migliorare i loro numeri; oppure il differenziale salariale di genere potrebbe temporaneamente peggiorare proprio perché si assumono più donne in posizione di junior management, il che non sarebbe di per sé un esito negativo.

È comunque innegabile che una valutazione per genere a livello di impresa delle politiche salariali e di progressione di carriera adottate è un elemento rilevante per attaccare il differenziale di genere nel mercato del lavoro. Poiché le ragioni che lo determinano sono molteplici e articolate, gli obblighi di reporting rappresentano solo un tassello che, per servire, deve avere “la forma giusta” ed essere collocato “nel posto giusto”.

fonte: LAVOCE.INFO

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