Quando io e mia sorella eravamo ancora delle ragazzine, talvolta mio padre accennava a qualche possibilità di lavorare lì da grandi, avrebbe volentieri aiutato le sue figlie. In passato si era molto adoperato per diversi ragazzi disoccupati, proponendoli egli stesso al direttore del personale e, dato che qualcuno di questi avrebbe poi fatto parte della sua squadra di elettricisti, spesso era lui stesso a fargli il colloquio tecnico.
Da un po’ di anni il fumo non esce più, ma non c’è più nemmeno il palazzo… è stato un brutto colpo per lui, ci aveva lavorato giorno e notte perché era spesso reperibile e devo confessare che da ragazzina talvolta ho preso io la telefonata del centralinista, mentendo sul fatto che non fosse ancora tornato a casa, così lasciavo mio padre cenare e gli riferivo poi che lo avevano cercato, fingendo di averlo dimenticato. Lui richiamava immediatamente e, nella maggior parte dei casi, riprendeva la macchina e andava in fabbrica, tornando solo a problema risolto; a volte il telefono squillava in piena notte e la storia era la stessa.
Con l’aumento di carriera aveva diritto a una delle abitazioni adiacenti lo stabilimento, ma su questa possibilità si oppose mia madre, preoccupata non solo per il fatto che lui avrebbe praticamente vissuto in fabbrica, ma anche per me e mia sorella, dato che la zona in cui si trovava e si trova tuttora la palazzina degli alloggi riservati, era nella zona industriale, abbastanza isolata e distante dal centro di Chieti Scalo dove abitavamo e da cui potevamo raggiungere tutto facilmente a piedi senza pericoli: la scuola, la parrocchia, le amicizie e la fermata del filobus per andare alle lezioni di danza classica. In seguito, sia io che mia sorella andammo all’Università e fortunatamente, oggi posso affermarlo, decidemmo una per alcuni motivi, l’altra per altri, di accettare le proposte di lavoro a Roma, dove oggi entrambe viviamo e lavoriamo.
Col senno di poi, in seguito alla chiusura dello stabilimento Cartiere Burgo di Chieti, posso dire che quello che sarebbe potuto essere il sogno di un padre si sarebbe sgretolato nelle sue stesse mani, senza che lui ne avesse alcuna colpa, alcuna previsione concreta e alcun potere di impedirlo. Ma la vita non si fa con i “se” e con i “ma” e dunque le cose sono andate così e basta.
Da venticinque anni, dunque, lavoro a Roma come informatico in un’azienda del settore IT (Information Technology) che gestisce i sistemi informativi di diverse grandi imprese e di molte Pubbliche Amministrazioni sia centrali che locali.
Qualche mese fa ho terminato un corso di formazione presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, conseguendo una certificazione come disability manager.
Si tratta di una nuova figura professionale, attualmente prevista dal Quadro Regionale degli Standard Professionali della Regione Lombardia, prima Regione in Italia, per l’inclusione lavorativa e sociale delle persone con disabilità.
Il disability manager, affiancando la gestione delle risorse umane, ha il compito di trovare le modalità per trasformare da “obbligo a risorsa” l’inserimento e quindi l’inclusione delle persone con disabilità (previsti dalla Legge 68/99); ciò si realizza valorizzando le capacità lavorative e le qualità della persona, scegliendo insieme le postazioni di lavoro e gli strumenti più adatti e idonei al singolo lavoratore, monitorandone nel tempo l’accessibilità e l’usabilità, in modo che ognuno diventi parte attiva e costituisca un punto di forza produttivo.
La novità di questa figura professionale è di monitorare nel tempo i cambiamenti delle condizioni lavorative e sanitarie di tutto il personale aziendale, considerando la possibilità che con l’età subentrino nuove problematiche legate a patologie croniche, malattie oncologiche – non necessariamente, quindi, delle vere e proprie disabilità – che possono causare ripetute assenze dal lavoro per motivi terapeutici, pratici e organizzativi.
Ma cosa può fare concretamente un disability manager? Può proporre flessibilità negli orari e facilitazioni per le sedi di lavoro, politiche di miglioramento della qualità della vita aziendale, anche inventando spazi e tempi per le attività sociali, in collaborazione con le realtà locali che possano interagire a supporto di servizi ai lavoratori, e in molti casi ciò può favorire una diminuzione del fenomeno dell’assenteismo, costoso tanto per l’azienda quanto per l’intera collettività sociale.
Probabilmente in passato una simile figura sarebbe risultata utile per valutare le possibilità di alcuni lavoratori e lavoratrici che, per vari motivi, necessitavano di flessibilità negli orari, magari per accompagnare un figlio a svolgere un’attività sportiva pomeridiana, per seguirlo nei compiti oppure per gestire un familiare malato. In tal senso, mi risulta che il Villaggio Celdit, che accoglieva le famiglie di molti lavoratori della zona industriale di Chieti, fosse un vero e proprio bacino di contatti umani, un luogo in cui le persone lavoravano contente e stavano anche economicamente bene. Alcune fabbriche concedevano benefit come l’asilo gratuito, facilitazioni economiche per l’accesso alle colonie estive dei bambini e per acquisti di materiale di cancelleria scontati o gratuiti ad inizio anno scolastico.
Oggi il disability manager, nelle aziende che lo prevedano, può provvedere a fare applicare politiche migliorative della qualità aziendale e, monitorando le normative e le circolari vigenti, inventare strategie di alleggerimento delle condizioni di ogni singolo lavoratore. Ed è una figura che si deve occupare anche di controllare le eventuali discriminazioni per diversità, siano esse di genere, di religione, di razza, di orientamento sessuale ecc.
Un suo ulteriore importante compito è quello di prestare attenzione al “rientro al lavoro”: è noto infatti che una lunga malattia, un intervento chirurgico importante, una terapia oncologica o anche semplicemente una gravidanza, sono fasi delicate e non permettono un ritorno lavorativo a pieno regime ottimale, ma necessitano di ritmi un po’ diluiti, magari lavorando per qualche ora in azienda e altre da casa; in questi casi può essere presa in considerazione la possibilità di lavorare in regime di part-time o, ancora più flessibile, di proporre il cosiddetto “lavoro agile”, noto anche come smart working.
Tornando alla mia città natale e alla Cartiera di allora, pensare di poter realizzare quanto detto era quasi certamente impossibile: ad esempio un operaio non avrebbe potuto seguire il lavoro delle taglierine da casa, ciò che oggi invece si può fare grazie alle nuove tecnologie e alla digitalizzazione di molti processi di automazione industriale.
Queste politiche, dunque, non potranno più essere pensabili nella Cartiera di Chieti, ma forse potrebbero esserlo nelle aziende ancora presenti in quel territorio e altrove, perché no?