Lettera aperta a un medico che ha deciso di lasciare il SSN
“Caro Federico,
speriamo che tu possa avere le soddisfazioni che il Servizio Sanitario Nazionale non è riusciti a darti. Noi continueremo a batterci per fare sì che tu possa tornare a lavorare con noi.”
È questo il saluto che vogliamo dare a Federico, uno dei tanti medici che in questi anni sta lasciando il Servizio Sanitario Nazionale, la cui storia è stata raccontata poco prima di Natale da Chiara Rivetti, Segretaria ANAAO del Piemonte.
In questi ultimi anni si sta assistendo ad una strisciante sindrome in grado di minare le fondamenta del SSN: riguarda l’uscita dalle strutture pubbliche di molti professionisti che non reggono più le condizioni di lavoro e di vita personale imposte dalle proprie organizzazioni. È la sindrome da uscita: carichi di lavoro spesso eccessivi, responsabilità e rischi sempre più forti, riconoscimenti professionali che faticano ad arrivare, strutture e tecnologie spesso inadeguate, vertici aziendali lontani e incapaci di valorizzare il lavoro dei professionisti e trattamento economico fermo da anni (anche se non è questo il problema per cui la decisione viene presa). Molto spesso è una scelta sofferta: la maggior parte dei professionisti che lasciano credono infatti nel valore del pubblico. A questo si aggiunga che in molti non entrano neanche nel sistema, scelgono direttamente di andare a lavorare all’estero. E questo riguarda tutte le professioni sanitarie, non solo i medici.
Le responsabilità di tutto questo si sono accumulate nel tempo e hanno di fatto creato le condizioni per favorire il sistema privato, scelte avvenute sia a livello nazionale che regionale, in particolare in alcune realtà, che di fatto stanno sempre più indebolendo il sistema. Mentre in altre questa sindrome è meno sentita, ma pur sempre presente.
Se in termini di diagnosi questo problema è facilmente identificabile, visti i numeri dei professionisti in uscita, molto più complesso è trovare le terapie efficaci. Il nuovo governo sta cercando di invertire la rotta dando una boccata di ossigeno al sistema sanitario. Ad esempio attraverso nuove assunzioni, togliendo il superticket che favoriva il ricorso al privato o dando il via ad un piano di investimenti. Ma sono sufficienti per contrastare questa sindrome? Forse no.
È necessario prendersi cura di chi cura. Di chi ogni giorno vede i pazienti ed è in grado di fare la differenza nel far sentire accolte le persone nel momento di maggiore bisogno. Per prima cosa eliminando le condizioni oggettive di malessere viste sopra, tornando ad avere il personale che consente turni accettabili e servizi adeguati per i pazienti. Ma ci sono altri aspetti che meriterebbero maggiore attenzione per prendersi cura dei professionisti.
- Mantenere all’interno delle strutture pubbliche la centralità dei percorsi. Fin quando verrà dato al privato la parte “migliore” dei percorsi assistenziali (quella remunerativa e meno problematica), continueremo ad avere l’emorragia di professionisti. Per fare l’esempio dell’ortopedia, è chiaro che se lascio nel pubblico solo la gestione delle urgenze, questo porterà inevitabilmente a scelte di questo tipo. Non si tratta di essere buoni o cattivi, di destra o di sinistra, ma di una naturale risposta alle continue sollecitazioni dei produttori privati che si accaparrano i professionisti formati dal pubblico, nell’indifferenza dei responsabili della sanità pubblica.
- Gestire e non subire l’innovazione. Tutti sappiamo come la sanità sia oggetto di una fortissima innovazione e questa è un aspetto molto positivo se viene gestito per il bene dei pazienti. Troppe volte tuttavia questa innovazione è solo subita, senza valorizzare in modo adeguato i professionisti che hanno capacità e competenze per fare le giuste scelte in termini di sicurezza e appropriatezza delle cure. Questo impone di investire sulla formazione, senza lasciarla completamente nelle mani del privato, sulla informazione scientifica, che non deve essere solo commerciale come spesso avviene e soprattutto sul sostegno reale alla ricerca, verso soluzioni a problemi reali dei pazienti e delle organizzazioni, senza lasciarla completamente in mano all’industria. Questi ambiti sono tre facce della stessa medaglia, che se valorizzati in modo adeguato aiutano anche i professionisti a sentirsi parte delle singole organizzazioni. A questo si associa il tema degli investimenti tecnologici, spina nel fianco di tutte le organizzazioni: anch’essi vanno gestiti e non subiti, mettendo in primo piano il tema della loro efficacia e sicurezza. E tutto questo va fatto coinvolgendo il sistema universitario che rappresenta il luogo in cui le nuove generazioni di operatori crescono e si formano.
- Far crescere l’appropriatezza con i professionisti. Sempre in termini di innovazione va sostenuta l’appropriatezza, senza inutili imposizioni ai professionisti, ma favorendo percorsi di crescita e di analisi condivisa. Sono davvero pochi coloro che non si rendono conto dei problemi di sicurezza e di efficacia delle terapie: il tema è coinvolgere nel giusto modo chi deve fare le scelte. Per fare un esempio si pensi ai farmaci per la cura dei disturbi mentali: esiste un movimento di professionisti che sta lavorando per usare meno farmaci a fronte di altri interventi più sicuri ed efficaci nel medio-lungo periodo. Si tratta di trovare il modo di sostenere queste azioni che alla fine valorizzano i singoli operatori, portando a risultati positivi all’intero sistema di salute.
- Lavorare sul senso di comunità. Il tema della cronicità e della non autosufficienza sarà uno dei temi cardine dei prossimi 50 anni ed è l’ambito dove maggiormente si gioca la sfida della integrazione dei servizi e delle professioni. Anche in questo caso esiste molta variabilità a livello nazionale con punte di eccellenza come l’Emilia-Romagna che ha istituitoun fondo regionale per la non autosufficienza e ha sviluppato in modo importante le case della salute. Ma possiamo fare molto di più sostenendo il senso di comunità dei professionisti e della società civile. E anche questo è un modo di prendersi cura di chi cura. Fare in modo che le strutture assistenziali diventino luoghi vissuti dalle comunità e non solo posti in cui erogare prestazioni. Questo vuol dire coinvolgere in una progettualità capace di far leva sulle capacità dell’intera comunità le istituzioni, le rappresentanze sociali e l’associazionismo. E anche sviluppare comunità di operatori andando a rafforzare il senso di integrazione e di interdisciplinarietà fra le professioni.
- Valorizzare l’ascolto. Un altro elemento che va recuperato è la capacità di ascolto, dei pazienti e dei loro bisogni, ma anche degli stessi professionisti. Un sistema che impone a questi ultimi ritmi che non consentono di ascoltare i pazienti è un sistema destinato a fallire. Inoltre, le direzioni aziendali sono quasi sempre troppo attente agli obiettivi definiti a livello regionale e troppo poco interessate alla qualità di vita, personale e professionale, dei propri collaboratori.
- Ritrovare il senso del lavorare nel SSN. Infine forse il punto più importante: sta progressivamente scemando l’orgoglio di far parte del SSN, l’istituzione che da oltre 40 anni garantisce cure e assistenza a tutte le persone senza alcuna discriminazione. Cosa che le nuove generazioni di professionisti non conoscono, anche perché l’Università non la insegna. E parliamo dello spirito vitale che le organizzazioni vincenti hanno e condividono a tutti i livelli: del perché esisti. Ogni professionista del sistema sanitario riceve degli obiettivi, ma si lavora troppo poco sul valore fondante il proprio agire quotidiano: sul perché il SSN esiste. Se non rispondiamo a questa domanda e soprattutto se non è chiara a chi ogni giorno vede i pazienti sarà sempre una rincorsa a mettere delle toppe: come quelle strade in cui l’asfalto ogni inverno cede al freddo e il problema sta nella qualità della manutenzione, non nel freddo …
Il SSN continuerà a produrre buoni risultati se i professionisti saranno i primi ad avere fiducia nel sistema in cui lavorano e a esserne orgogliosi. Solo così i tanti professionisti che stanno lasciando potranno tornare a lavorare nel SSN. Lavoriamo per trattenere chi, come Federico, non è riuscito a resistere alle difficoltà di questi anni.
fonte: SALUTE DIRITTO FONDAMENTALE