Il 7 febbraio 2018 Luigi Saraceni, nel commentare per questa rubrica una sentenza della Corte di Cassazione penale, che riteneva non punibile penalmente la coltivazione di sei piantine di cannabis destinate ad uso personale, auspicava che questa soluzione “in assenza di un intervento risolutivo del legislatore potesse diventare patrimonio unanime della giurisprudenza”. Parole profetiche.
A distanza di poco meno di due anni possiamo dire che, mentre la politica si contorce in un dibattito asfittico e moraleggiante, la giurisprudenza di legittimità torna sulla controversa materia della coltivazione di piante di cannabis. Sappiamo perché sia tema spinoso: una distonia tra le formulazioni del comma 1 e del comma 1-bis dell’art. 73 Dpr 309/90 impedisce in astratto di configurare la non punibilità della coltivazione in caso di destinazione all’uso personale, a differenza di quanto accade per la detenzione dei derivati (marijuana e hashish).
Di qui un problema serio per il principio di uguaglianza, al quale le Sezioni Unite penali ora offrono una risposta ragionevole e chiara per l’interprete. Siamo in attesa delle motivazioni della decisione presa all’udienza del 19 dicembre 2019 e la cautela è d’obbligo.
L’anticipazione tuttavia parla chiaro. Dopo aver ripetuto, conformemente al dato normativo, che per integrare il reato di coltivazione è sufficiente la conformità al tipo botanico della pianta e l’attitudine di questa a maturare e produrre sostanza stupefacente, le Sezioni Unite precisano che “devono ritenersi escluse, in quanto non riconducibili all’ambito di applicazione della norma penale, le attività di coltivazione di minime dimensioni svolte in forma domestica, che, per le rudimentali tecniche utilizzate, lo scarso numero di piante, il modestissimo quantitativo di prodotto ricavabile, la mancanza di ulteriori indici di un loro inserimento nell’ambito del mercato degli stupefacenti, appaiono destinate in via esclusiva all’uso personale del coltivatore”.
Possiamo dire di trovarci di fronte alla reintroduzione della provvidenziale nozione di coltivazione “domestica” ritenuta, a differenza della coltivazione “imprenditoriale”, non penalmente rilevante.
L’inversione di rotta rispetto all’orientamento consolidato nelle sentenze gemelle delle Sezioni Unite penali del 2008 (28605/2008 Di Salvia e 28606/2008 Valletta) è lampante. Nel fare piazza pulita della distinzione tra tipologie di coltivazione, quelle sentenze specificavano che “costituisce condotta penalmente rilevante qualsiasi attività non autorizzata di coltivazione di piante dalle quali sono estraibili sostanze stupefacenti, anche quando sia realizzata per la destinazione del prodotto a uso esclusivamente personale”. Si trattava di un approccio che esaltava il rigore della legge, appena temperato dalla dichiarata irrilevanza di condotte non offensive in concreto. In cosa consistesse questa inoffensività, tuttavia, non era dato sapere, mantenendosi la Cassazione sullo stesso livello di genericità della sentenza 360/1995 della Corte costituzionale. Di qui le interpretazioni contrastanti dei giudici di merito e il diffondersi di un orientamento rigorista che vedeva soltanto nel reato impossibile (totale assenza di efficacia psicotropa) la via d’uscita dal penale. Inutile rimarcare le dannose conseguenze sul processo e sul carcere di questo orientamento. C’è da augurarsi che il ripristino di criteri limpidi di distinzione tra condotte penalmente rilevanti e condotte sanzionate soltanto in via amministrativa produca alcuni effetti sperati: allontanare il consumatore occasionale e personale dalle vie dello spaccio e della criminalità; far riflettere la politica sulla pluralità delle tipologie di consumo e sulla necessità di affrontare questa diversità con politiche sociali non repressive.
fonte: FUORILUOGO
Riccardo De Vito è Presidente di Magistratura democratica