Negli Stati Uniti la Modern Monetary Theory sta suscitando un dibattito estremamente acceso ben oltre i ristretti circuiti accademici, complice l’endorsement di personalità politiche di rilievo del campo progressista. Un libro aiuta a fare chiarezza su cos’è e cosa propone.
Poche settimane fa Mario Draghi ha concluso il suo mandato da presidente della Banca Centrale Europea. Non fosse per lo stile, al solito, impeccabilmente sobrio – e per il carattere piuttosto tecnico della discussione in cui si è addentrato – si potrebbe quasi dire che si sia congedato con una certa teatralità. Nel corso di una audizione a settembre al Parlamento europeo, Draghi si è spinto addirittura a dire che le modalità con cui lo stimolo monetario è stato condotto in questi anni non sono certo le uniche possibili: “alcune nuove idee in tema di politica monetaria, come l’MMT (Modern Monetary Theory) insieme a contributi recenti di vari autori, incluso il professor Fisher, suggeriscono differenti modalità di immettere liquidità nell’economia. Si tratta di idee, oggettivamente, piuttosto nuove. Non sono state discusse dal Consiglio Direttivo [della BCE] e quindi dovremmo valutarle [look at them, nell’originale inglese]”.
Il professor Fisher evocato è il celebre Stanley Fisher, già vicepresidente della FED nonché thesis advisor di Draghi nel suo dottorato al MIT di Boston negli anni Settanta. In un recente rapporto per il Blackrock Investment Institute, Fisher (insieme ad altri coautori) ha di fatto proposto una sorta di “helicopter money” (trasferimento diretto di liquidità creata dalla banca centrale nelle mani del pubblico).
L’MMT è al centro di un dibattito piuttosto acceso negli Stati Uniti, anche grazie al sostegno dato a queste tesi da personalità politiche molto popolari come la senatrice democratica Alexandria Ocasio-Cortez, che si è fatta addirittura fotografare con in mano il primo manuale universitario di macroeconomia esplicitamente ispirato a questo filone teorico (William Mitchell, Randall Wray e Martin Watts, Macroeconomics, Macmillan 2019). Il testo è senz’altro uno strumento utile per chi volesse farsi un’idea dell’MMT, come da invito di Draghi. Anche se va precisato che “Macroeconomics” è, appunto, un manuale universitario pensato per corsi di macro “intermedia” nel sistema amaricano. Non è un saggio o una raccolta di articoli accademici. Pertanto, molte delle cose che contiene non sono affatto nuove, anche se il testo si fa apprezzare per due caratteristiche solitamente assenti nella manualistica più tradizionale: da un lato l’adozione di un approccio storico-comparativo nella costruzione del “modello” sviluppato nel corso del volume. Si tratta di un modellino didattico tipicamente keynesiano, in linea con la tradizione accademica cosiddetta “Post-Keynesiana” da cui la MMT in ultima analisi deriva; dall’altro la trattazione della contabilità nazionale attraverso il “sectoral balance approach”, lungo la riflessione dell’economista inglese Wynne Godley alla base della modellistica macroecononica Stock-Flow Consistent (SFC). La crescente popolarità dei modelli SFC nell’ambito della teoria macroeconomica “critica” giustifica senz’altro la scelta di dedicare al tema uno dei capitoli iniziali del libro.
Le novità di cui l’MMT si fa portavoce si collocano più che altro sul lato della policy, prima fra tutte la proposta di un Job Guarantee Program per la piena occupazione, in alternativa al più tradizionale management della domanda. Su questo punto verrebbe tuttavia da chiedersi: che cos’è la Job Guarantee se non un tipo particolare di politica fiscale? Probabilmente gli autori risponderebbero che questa è innanzitutto una misura anti-inflazionistica (ma in questo caso si rischierebbe di scivolare nella disputa terminologica).
“La conclusione più importante raggiunta dalla MMT”, si legge in uno dei capitoli iniziali del libro (mia traduzione dall’inglese), “è che uno stato che emette la propria moneta non fronteggia alcun limite finanziario. Detto semplicemente, un paese che crea la propria moneta non può ‘finire i soldi’ e diventare insolvente per debiti denominati nella propria valuta. Può sempre onorare i pagamenti alla scadenza. Per questa ragione, non ha senso paragonare le finanze di uno stato sovrano a quelle di una famiglia o di un’azienda”.
L’affermazione è in realtà meno dirompente nelle sue implicazioni di quanto possa sembrare ad un primo sguardo. Non è infatti da intendersi nel senso che lo stato non debba minimamente preoccuparsi del livello del proprio indebitamento nel praticare politiche di spesa pubblica.
Il problema, se mai, è quello delle possibili conseguenze inflazionistiche che potrebbero aversi nel caso di una politica “dissennata” di spesa pubblica finanziata con debito. Su questo non c’è molta distanza fra quello che potrebbe sostenere un monetarista tradizionale e un teorico MMT. La differenza risiede nella spiegazione dell’origine del processo inflazionistico.
Secondo Wray e soci anche in un mondo “ipotetico” in cui la banca centrale intervenisse come prestatore di “prima istanza” di un governo per finanziare la sua spesa, la quantità di liquidità immessa nel sistema sarebbe di fatto decisa ex post dai comportamenti del sistema bancario e dagli agenti che gestiscono il risparmio privato. Una banca centrale che volesse continuare a fissare i tassi di interesse – come fanno le banche centrali moderne – non potrebbe che utilizzare la vendita dei titoli di stato al sistema bancario per drenare la liquidità in eccesso (a meno di accettare un tasso overnight schiacciato sul pavimento del corridoio, come si dice in gergo). Come un governo che volesse controllare spinte inflazionistiche create dall’eccesso di spesa pubblica non potrebbe non drenare capacità di spesa fuori dal circuito dell’economia tramite imposizione di tasse. Non solo: i teorici MMT contestano il legame fra liquidità creata dalla banca centrale e offerta di moneta – in linea con la tradizione teorica che considera la moneta “endogena” e non controllabile direttamente dalle banche centrali. E contestano il legame di causalità che va dagli aggregati monetari al livello dei prezzi.
Ora, se qualche lezione può essere tratta dalle politiche monetarie non convenzionali che negli ultimi anni sono stati condotte al di qua e al di là dell’Atlantico, questa non può prescindere dalla fragilità delle basi teoriche delle varie versioni della di teoria quantitativa della moneta (in sostanza: più liquidità, più offerta di moneta, più inflazione). Di “pericolo inflazionistico” ad oggi non sembra esserci traccia né in Europa, né in USA, né in Giappone. Questo è uno dei motivi per cui sarebbe più che benvenuto un aggiornamento del quadro teorico in cui operano le banche centrali, come Draghi è sembrato suggerire. Ecco perché l’attenzione riscossa dalla MMT può rappresentare un pungolo benefico.
Ciò non significa che tali teorie non presentino elementi critici. Ad esempio, “Macroeconomics” non dedica alcuna attenzione agli effetti distributivi di elevati livelli di debito pubblico: dati gli attuali regimi fiscali, il pagamento di interessi sul debito altro non è che uno spostamento di risorse dal basso verso l’alto nella società. Risorse che potrebbero trovare un impiego ben più conforme all’interesse collettivo. C’è poi da tenere conto che la linea di demarcazione fra piano normativo/ideale e piano descrittivo è a volte sfumata nel manuale di Mitchell, Wray e Watts. Se è vero che molti dei meccanismi descritti riproducono ciò che di fatto[1] avviene in USA, certo lo stesso discorso non vale in Europa, dove vincoli molto più stringenti vigono per il comportamento della banca centrale e le politiche fiscali degli stati. I teorici MMT non considerano l’euro una vera moneta sovrana, proprio per i limiti dell’architettura entro la quale la moneta unica è stata costituita. Ma anche monete realmente “sovrane” non potrebbero ignorare altri problemi che accompagnerebbero probabilmente politiche fiscali aggressive come quelle proposte dalla MMT. Si pensi agli squilibri della bilancia dei pagamenti, con tutto ciò che ne potrebbe conseguire in termini di deprezzamento del tasso di cambio e importazione di inflazione dall’estero. Di nuovo, al dollaro in quanto moneta di riserva internazionale questi caveat possono anche non applicarsi. Ma sorge allora un sospetto: è la MMT una ricetta cucita su misura per l’exorbitant privilege del dollaro?
In ogni caso, il libro di Mitchell, Wray e Watts costituisce un’ottima introduzione all’impianto dottrinale della MMT e fornisce al lettore molti elementi utili per cominciare a rispondere a questo ed a diversi altri interrogativi.
EMILIO CARNEVALI è Economista del Goverment Economic Service (Regno Unito). La responsabilità per le idee espresse nell’articolo è interamente dell’autore e non coinvolge l’istituzione di provenienza.
William Mitchell, Randall Wray e Martin Watts,
Macroeconomics, Macmillan 2019
***Note***
[1] Il dibattito sulla pratica di “consolidare” (considerare come una unica entità) governo e banca centrale da parte dei teorici MMT è molto ampio. Per chi volesse impegnarsi in una lettura più approfondita e tecnica si rimanda al paper di Marc Lavoie “The monetary and fiscal nexus of Neo-Chartalism: a friendly critique” (2013). In questo articolo Lavoie nota come nel corso del tempo i teorici MMT abbiano man mano “annacquato il loro vino”: la loro concezione dell’interazione fra banca centrale e governo è stata infatti presentata sempre più frequentemente come una “situazione astratta” utile a semplificare meccanismi reali più complessi e a evidenziare i limiti che gli stati si sono autoimposti nella loro conduzione della politica monetaria. Il manuale di Wray e soci si colloca lungo questa linea di “ammorbidimento” delle posizioni inziali della MMT.