Che cosa intendiamo per politica della salute? Mettere più soldi per la sanità? Avere a disposizione i necessari mezzi diagnostici e terapeutici? Poter contare su un numero maggiore di camici bianchi e di infermieri? Incrementare l’attività del medico di base e della medicina di territorio? Sì. Questo e molto altro. Perciò le misure annunciate dal governo giallo-rosso sono importanti. Tuttavia restano dentro il perimetro dell’assistenza sanitaria. Mentre la salute è qualcosa di diverso.
Nei giorni passati il ministro della Salute, Roberto Speranza, insieme al presidente del Consiglio, ha tratto un bilancio sui primi 100 giorni del ministero, elencando, tra gli obiettivi raggiunti, i 2 miliardi di euro in più sul fondo sanitario, altri 2 miliardi per l’edilizia, l’abolizione del superticket, oltre alle misure sul personale “che andranno ad immettere nuovi medici e infermieri nei nostri ospedali”. Si tratta senza dubbio di interventi utili, che miglioreranno diversi aspetti strutturali del settore, in stato di notevole sofferenza. Incrementare il Fondo sanitario nazionale, assumere personale, sono alcuni passaggi in assenza dei quali la sanità non potrebbe che peggiorare.
Però non credo che queste decisioni, condivisibili, riusciranno a mettere fine ai due più grandi problemi, secondo me ovviamente, della sanità pubblica: le liste di attesa e le diseguaglianze territoriali. Perché sul primo punto serve un lavoro congiunto governo/Regioni, in particolare nei settori diagnostici e terapeutici dove le liste sono più lunghe, in grado di individuare obiettivi a breve e medio termine. Invece per la seconda questione serve una politica di più ampio respiro, e di lunga durata, capace di affrontare alla radice le ragioni dei divari Nord/Sud, che condizionano – e “puniscono” – la vita, il lavoro, la società di mezza Italia.
Le differenze tra Settentrione e Meridione sono talmente profonde da incidere perfino sull’esistenza stessa di milioni di persone. Nel 14.esimo rapporto Crea-Università di Tor Vergata del gennaio scorso, si sottolineava che il divario tra Nord e Sud è di oltre un anno di svantaggio in termini di aspettativa di vita nelle Regioni del Mezzogiorno. A conferma che quando parliamo dell’articolo 32 della Costituzione, spesso citato come punto di riferimento per le politiche sanitarie, bisogna anche dire che il diritto alla salute è relativo. E dipende molto da dove vivi.
Ma c’è un aspetto di fondo che va chiarito, e riguarda il significato stesso di salute.
Perché stiamo parlando di un valore. Fondamentale. Che deve permeare tutta la società, sotto ogni aspetto. La salute è legata all’ambiente di lavoro, alla produzione agricola, alla dieta quotidiana, all’aria che respiriamo, alle condizioni psichiche, oltre che fisiche ed economiche dei cittadini (se guadagni poco o hai una pensione bassa, la qualità dell’esistenza ne risente), al tempo libero, ai rapporti sessuali…Nella società moderna non ci sono variabili indipendenti per conquistare la salute. Che va perciò affrontata dal punto di vista economico, politico, culturale, ecologico, sociale…
Le politiche per la salute non si modificano di una virgola se si interviene solo sulle necessità specifiche della sanità. Perché se l’aria che respiriamo è malata è li che bisogna intervenire; se il cibo che consumiamo è contraffatto o proviene da zone inquinate, aumentano le patologie; se manca una corretta educazione alimentare, crescono i rischi di obesità e sovrappeso, con tutti i mali che comportano…Insomma la salute dovrebbe essere “pane quotidiano” in un programma di governo. E senza una visione complessiva, globale, il cambiamento sarà sempre e comunque parziale. Peraltro una nuova politica che punti alla salute e al benessere della comunità, deve mettere al centro non la malattia, ma l’individuo. La persona.
fonte: Noi&Voi-Blog-La Repubblica