Cinque anni senza Franco Bompressi. di Antonio Giuseppe Malafarina

Franco Bomprezzi, con la sua osteogenesi imperfetta dalla nascita, nell’anno di grazia 1952, era giornalista per davvero. Io sono un giornalista prestato alla causa, lui era passato dalla cronaca al sociale deliberatamente. Non ci torno sopra, ne ho scritto a sufficienza in altre sedi e Wikipedia può fare il resto.
Come detto, se esistesse un giornalismo della disabilità, lui sarebbe il numero uno. Ma non esiste ed è un male perché, come per il giornalismo della politica, della religione, dello sport e via dicendo, la comunicazione della disabilità ha le sue regole, i suoi fatti e le sue competenze che ne richiedono una specifica trattazione.

A proposito di giornalismo dell’ultimo lustro, i blog hanno smarrito l’efficacia di un tempo, ma non si sono estinti. I social network sono più diffusi e diversificati. L’immagine prevale in crescendo, ma il suono sta riscuotendo un nascente successo. Il messaggio video si va accorciando e i giovani rincorrono forme comunicative immediate e imprevedibili, quasi effimere. La televisione è in agonia come da decenni. E tutto questo ha i suoi effetti sulla disabilità.
Il riversarsi dell’informazione su nuove piattaforme e con nuovi linguaggi rischia infatti di tagliare fuori dalla vita sociale le persone che non riescono a stare al passo tecnologico con i tempi.
Se fino a cinque anni fa l’accessibilità tecnologica riguardava quasi esclusivamente ciò che si trovava sul PC, oggi l’ampliata gamma di dispositivi informatici vede allontanarsi il traguardo della perfetta accessibilità. E per raggiungere un più vasto numero di utenti bisogna essere presenti sulla maggior quantità di piattaforme possibile. Sperando che l’utente con disabilità sia presente su almeno una di queste piattaforme.

La tecnologia ha messo a disposizione delle persone con disabilità maggiori facilitatori: videogame per aiutare le persone con problemi relazionali, robot che possono supportare persone anziane o con disturbi dello spettro autistico. Rispetto a cinque anni fa abbiamo una tecnologia più diffusa e amichevole, tuttavia non sempre accessibile.

Cresce la fruibilità del nostro patrimonio culturale, con progetti in tutta Italia per rendere le strutture in linea con i principi della progettazione universale. Gli imprenditori hanno capito che ci sono margini di guadagno. I musei non di rado abbinano coscienza morale a convenienza economica e creano progetti inclusivi.

La disabilità sta diventando “di moda”. A differenza di quanto sosteneva Bomprezzi, che diceva che non lo sarebbe mai stata. Aveva ragione: fino a cinque anni fa era irreale pensare qualcosa di diverso.
Oggi Bebe Vio fa tendenza, tanto che esiste una Barbie come lei, è testimonial di diverse campagne pubblicitarie che non c’entrano con la disabilità e la sua notorietà è planetaria. E le case di cosmetici non cercano solo lei: la pubblicità, infatti, investe sulla disabilità. La moda non ancora del tutto.
Se Tommy Hilfiger ha lanciato una linea di moda che prende in considerazione le persone con disabilità, da noi non ne vedo traccia. La Nike fa solette per le protesi da corsa ed è vicina allo sport paralimpico.

Siamo presenti nei film ben più di un tempo. Talvolta vedo fra le comparse persone con disabilità. Segno di un’idea di persone con disabilità visibili sul territorio. Ma le barriere sono ancora tante, benché stiano crescendo i Comuni che parlano di Piani per l’Abbattimento delle Barriere Architettoniche.
La cronaca racconta di disabili lasciati a terra dagli aerei oppure che non possono prendere il treno o i mezzi di trasporto urbani. La progettualità di città sempre più prive di traffico, inoltre, rischia di impedire la circolazione ai mezzi delle persone con disabilità. Se un tempo il problema dei parcheggi riservati era legato prevalentemente all’occupazione impropria, oggi emerge tuonante il problema dell’insufficienza di stalli pubblici dedicati.

Gli stereotipi dilagano. Si parla molto di autismo, e in troppi lo associano al costrutto “affetto da”, verbo improprio perché l’autismo non è una malattia. Abbiamo tanto da lavorare sul linguaggio.
Quest’anno si sono tenuti diversi corsi di aggiornamento sul linguaggio della disabilità a beneficio dei comunicatori. Franco Bomprezzi si batteva per il giusto linguaggio, ovvero per la diffusione della mentalità della Classificazione Internazionale del Funzionamento, della Disabilità e della Salute (ICF), il documento dell’Organizzazione Mondiale della Sanità che ha superato la cultura dell’handicap.
Cultura che, sebbene più diffusa tra i giovani, non ci ha reso immuni dal bullismo. Che non è fatto solo dagli studenti a scuola, ma anche dai genitori che non agevolano la riuscita di gite scolastiche inclusive. Le barriere mentali sono tristemente ben presenti fra noi.

E lo sono in politica. Abbiamo avuto un Ministero sulla Disabilità, possibilità che se ricordo bene lasciava Bomprezzi perplesso, perché avrebbe potuto prestarsi a un’interpretazione ghettizzante della materia. Il Ministero non c’è più, qualcosa si è fatto, ma una politica che si limita a fare il suo non è una politica nuova.
E infatti continuano a mancare gli insegnanti di sostegno. Gli assistenti delle persone con disabilità gravissima, cioè i loro familiari, ovvero i cosiddetti caregiver, hanno visto riconosciuta una loro presenza sociale, ma non c’è una politica sociale a loro favore. Idem la vita indipendente, il diritto di ogni persona con disabilità a vivere in autonomia. Anche in questo caso le persone patiscono la piena esigibilità del diritto alla propria autodeterminazione. Autodeterminazione a poter vivere in autonomia alla scomparsa dei propri cari, che la “Legge sul Dopo di Noi” [Legge 112/16, N.d.R.] non ha soddisfatto, quantomeno il sottoscritto.

Cinque anni per un bilancio che evidenzia un andamento disomogeneo della considerazione della disabilità. La popolazione conosce meglio le persone con disabilità, ma non abbastanza da considerarle persone di pari dignità. E l’abilismo persiste.
I giovani che si affacciano ora alla disabilità troveranno tanto da fare. Spero non commettano l’errore di dimenticare quanto è stato fatto. Loro partono un passo avanti. Proprio grazie a persone come Franco Bomprezzi, che con le sue battaglie e con il suo stile amichevole, competente e severo ha cambiato almeno un po’ la società, rendendo le persone con disabilità un po’ meno invisibili. Se oggi tutti stiamo un po’ meglio è anche merito suo.
Grazie Franco, maestro mio.

Franco BomprezziFranco Bomprezzi (1° agosto 1952-18 dicembre 2014), che fu direttore responsabile di «Superando.it» dall’avvio delle pubblicazioni fino al giorno della sua scomparsa

 

 

 

 

Il presente testo è già apparso in “InVisibili”, blog del «Corriere della Sera.it» (con il titolo “Cinque anni senza Franco Bomprezzi. Cosa è cambiato, la sua eredità e cosa resta da fare”). Viene qui ripreso, con alcuni riadattamenti al diverso contenitore, per gentile concessione.

fonte: SUPERANDO

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