Il capitalismo al tempo del Black Friday. di Fabrizio Venafro, Salvatore Bianco

Il Black Friday è trascorso da poco. Un rito in cui siamo immersi, devoti di un culto che non promette espiazione, ma debito e conseguente colpa. Lavorare meno e consumare in modo consapevole è quello che si dovrebbe fare.

Con velocità fulminea, da fenomeno di costume circoscritto e un po’ bizzarro, il Black Friday è divenuto in pochi anni, complice il villaggio globale, evento planetario, con un giro di affari vorticoso. Solo in Italia ha fatto registrare, anno su anno, un incremento di circa il 55% di vendite e ha coinvolto sedici milioni di persone, superando abbondantemente i due miliardi di giro d’affari. Il successo ne ha dilatato la durata tanto che si parla di settimana del Black Friday. Lo spazio geografico di provenienza è certo quello degli Stati Uniti, ma la provenienza del nome, venerdì nero, come conviene ad un mito sia pure di oggi, al contrario della puntuale ricorrenza, è controversa e segnala che anche le origini siano spesso una costruzione ex post, che accompagnano i cambiamenti culturali di un’epoca. Ed allora che sia la riattualizzazione tetra del giorno in cui gli schiavi finivano in saldo oppure la giornata in cui gli operai disertavano le fabbriche dopo le intemperanze del Ringraziamento o, ancora, racchiuda l’imprecazione dei poliziotti della stradale di Filadelfia che in quel venerdì del ‘61 furono letteralmente travolti da un traffico eccezionale dovuto alle orde di consumatori, come detto, queste ricostruzioni, sono un po’ tutte vere o, se si preferisce, tutte un po’ false. Vero è che una storia come quella dei poliziotti lamentosi non poteva reggere alla lunga come stimolo allo shopping ed, allora, sotto regime neoliberista, meglio la narrazione dei libri contabili dei negozi che da quel fatidico venerdì passano dall’inchiostro rosso delle perdite a quello nero dei guadagni. 

Ma cosa spinge una fiumana di gente, arrischiando la loro stessa incolumità, come dimostrano taluni episodi americani finiti in tragedia, a prendere letteralmente d’assalto i centri commerciali o come sciame digitale inondare le piattaforme immateriali del web? La risposta è in una foto a colori che sbuca dalla copertina di una rivista patinata, dai dettagli nitidi e con punto di osservazione da sorvolo. Ritrae una delle tante scene che si sono ripetute in questi giorni ovunque nelle moderne cattedrali del commercio. È una calca di gente infervorata che assedia in circolo uno dei tanti altari allestiti per l’occasione, sotto gli occhi compiaciuti dell’officiante di turno, di una nota marca di prodotti elettronici, che mostra – così si intuisce – ai consumatori lì convenuti l’oggetto devozionale. I cartellini con lo sconto promesso saturano poi tutto l’ambiente circostante. E non si sottolineerà mai abbastanza la funzione decisiva dello sconto volto a piegare quella sorta di riluttanza all’eccesso, che frena e che in questo modo viene tacitata. Perché la meccanica dello sconto, è bene sempre rammentarlo, con la sua implacabile logica del risparmio, serve a seppellire quell’antica vocazione alla parsimonia e alla misura che ci abita da tempi remoti. 

Sembrano delinearsi i contorni del fenomeno. Un rito senza teologia in cui tutti noi siamo immersi, devoti di un culto che non promette espiazione, salvezza, ma solo crescente debito e conseguente colpa, «questo culto – scrive Benjamin riferendosi al capitalismo – è colpevolizzante-indebitante», che è poi il più vistoso apparente paradosso di una civiltà che ha promesso benessere ma non poteva che realizzare debito, basandosi in ultima istanza sul credito del denaro. 

D’altronde, la radice ultima di un meccanismo che postula una crescita infinita in un quadro di risorse finite e per giunta in rapido deperimento non può che risiedere in una credenza, una fede o qualche forma moderna di superstizione razionalistica. 

Se il termine Black Friday è suscettibile di congetture, l’ethos che lo anima ha origine certa. Come successe con lo spirito del capitalismo, grazie all’intuizione protestante che l’accumulo di ricchezza fosse un segnale di appartenenza alla comunità di eletti (come ci insegna Weber), anche lo spirito del consumismo ha un suo punto di origine ben preciso. E non a caso lo troviamo nella terra dove si insediarono quegli stessi che erano portatori dell’originaria fede: gli Stati Uniti. Qui, negli anni Cinquanta, vengono gettate le basi dello spirito consumistico, necessario corollario di un apparato iperproduttivista che si regge sul primo spirito. Da allora, si lavora incessantemente per creare una nuova antropologia fondata sul soddisfacimento compulsivo di un godimento senza fine che si esaurisce dopo ogni acquisto e cerca una propria riesumazione nel prossimo oggetto del desiderio (Lacan parlava in proposito del discorso del capitalista). 

Sono passati appena dieci anni dalla fine del conflitto mondiale e già si stava esaurendo la spinta alla crescita innescata dalla ricostruzione delle macerie lasciate in Europa e in Giappone. Negli Stati Uniti si temeva una crisi di sovrapproduzione perché il mercato era già saturo. Allora si cercarono altri modi per convincere le persone ad acquistare merci di cui, in fondo, non avevano bisogno. Una società che si crede ricca solamente perché consuma beni inutili. Ma per far questo deve cambiare il concetto stesso di bene. Come racconta Vance Packard ne I persuasori occulti, lavoro pioneristico perché osserva in tempo reale il mutamento di sistema, negli uffici marketing delle aziende cominciano ad essere assunti gli psicologi, affinché suggeriscano come convincere i consumatori ad acquistare ciò che non gli serve. Ancora più di prima, allora, il bene diventa l’incarnazione di un sogno, di uno status, di un carisma che sarebbe acquisito solo in virtù del possesso di un determinato oggetto. Da allora le auto, negli Stati Uniti, aumentano di dimensione, divenendo simbolo della personalità del guidatore. Nel 1955 viene pubblicato un articolo di Victor Lebow sul Journal of Retailing che è considerato il manifesto del capitalismo di consumo. Lebow auspicava che il consumo divenisse un vero e proprio stile di vita, esprimendo la necessità che gli oggetti avessero una vita breve, fossero sostituiti e gettati a un ritmo sempre più rapido. Attualmente il capitalismo intero si fonda su questa teorizzazione. L’usa e getta permette di abbassare il rischio delle crisi di sovrapproduzione ma non fa i conti con il fatto che tale stile non è sostenibile dal pianeta. Oggi ogni attività delle persone ruota intorno all’acquisto ritualizzato di merci, tanto da fare dei centri commerciali il non-luogo di ogni relazione umana, laddove prima erano le piazze della città ad essere il centro relazionale delle comunità urbane. Ciò significa che il capitalismo ha operato una vera mutazione antropologica facendo del lavoro e dell’acquisto di merci lo scopo esistenziale. Chiedere di lavorare meno e di consumare in modo consapevole diviene un discorso eversivo in questo contesto. Anche se tale atto eversivo si rende necessario alla luce della crisi ecologica cui stiamo assistendo. Il comportamento ecologico non è neutro rispetto al sistema di sviluppo. 

Nello stessa giornata del Black Friday si è svolto il Friday for future. Migliaia di giovani sono scesi nelle piazze chiedendo una maggiore sensibilità e incisività da parte dei governi per la salvaguardia del pianeta e del loro futuro. Ma, nel pomeriggio, quanto costruito la mattina viene disfatto, come una tela di Penelope, da una corsa all’acquisto compulsivo, sponsorizzato da giorni dalle potenze del mercato. Come si può ignorare l’enorme contraddizione tra i due avvenimenti che, per ironia della sorte, si celebrano il medesimo giorno? E come si può non notare la disparità delle forze in campo? Alcuni commentatori hanno scomodato, non a sproposito, la suggestiva immagine di un novello Davide contrapposto a Golia. Si sente, si avverte il disastro verso cui siamo lanciati e, contemporaneamente, si fanno sacrifici sull’altare dell’unico dio denaro che conta e che quel disastro sta rendendo sempre più reale. 

Certamente non quei giovani che non parlano di sconti ma di emergenza climatica e di pianeta da salvare. Il mercato è indubbiamente più forte e potente, ma la storia ha mostrato che alle idee serve più tempo ma che poi possono invertire la storia; l’immaginazione di una soggettività collettiva non catturata proprio perché prematura alla lunga può essere la novità dirompente di questo scorcio di nuovo millennio. E se un nocciolo di verità le parole lo palesano, allora Black Friday, o venerdì nero, ci ammonisce circa il treno impazzito su cui stiamo correndo verso il baratro. E dovrebbe anche ammonirci circa il poco tempo a disposizione per tirare il freno. Fermiamoci, per una volta, sul senso delle parole. 

fonte: SBILANCIAMOCI

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