Il Cile è l’economia più sviluppata e la democrazia più stabile dell’America Latina. Eppure, l’aumento del biglietto della metropolitana è bastato a scatenare la protesta. Perché dalla fine della dittatura di fatto non è cambiato il sistema di protezione sociale.
Ottobre di proteste
L’esplosione di rabbia in Cile ha sorpreso per la sua forza, ma non per le motivazioni. Le proteste sono iniziate il 17 ottobre contro l’aumento del biglietto della metropolitana di 30 pesos (meno del 4 per cento), ma sono cresciute rapidamente, per denunciare le disuguaglianze sociali che sono ancora elevate.
Il Cile è l’economia più sviluppata e la democrazia più stabile in America Latina ed era dunque l’ultimo paese in cui ci si sarebbe aspettati di assistere a rivolte, saccheggi e disordini come quelli che hanno paralizzato il paese nelle ultime settimane, con almeno 19 persone morte e migliaia ferite o arrestate.
Colto alla sprovvista dalle proteste, il presidente Sebastian Piñera aveva inizialmente dichiarato che il paese era in guerra con i manifestanti e che quindi era necessario lo stato d’emergenza, arrivando a imporre il coprifuoco e a mobilitare l’esercito per ristabilire l’ordine. Fortunatamente, è tornato sulla sua decisione, una volta resosi conto che riportare l’esercito a pattugliare le strade, per la prima volta dalla fine della dittatura, era come versare benzina sull’esplosione di rabbia dei cileni. Il presidente ha successivamente iniziato a dialogare con le parti sociali e a proporre alcune misure per rispondere al malcontento, come un aumento di pensione e salario minimi e il congelamento dei prezzi dei trasporti. Ma la domanda di cambiamento è molto forte e richiederà interventi strutturali sul ruolo del settore pubblico.
Il confronto con i paesi Ocse
“No son 30 pesos, son 30 anos” (Non sono 30 pesos, sono 30 anni) hanno cantato i manifestanti, riferendosi ai tre decenni da quando il dittatore Augusto Pinochet si è dimesso da presidente del Cile nel 1990. Trent’anni in cui il paese ha avuto un andamento macroeconomico invidiabile se paragonato al resto della regione: elevata crescita, bassa inflazione e basso indebitamento. Ma, nonostante il buon andamento dell’economia, i benefici della crescita non sono arrivati a tutti i cileni, perché la distribuzione del reddito, pur essendo migliorata, è ancora molto iniqua.
I progressi istituzionali ed economici hanno consentito al Cile di diventare membro dell’Ocse nel 2010, unico paese del Sud America. E proprio dal confronto con gli altri paesi avanzati si comprende meglio la motivazione alla base delle proteste e si può delineare quella che potrebbe essere la via da percorrere per placare le proteste in modo democratico.
La fornitura dei servizi, quali istruzione, sanità, trasporti, è ancora prevalentemente di natura privata, come era stato deciso sotto Pinochet, ciò fa sì che siano troppo costosi anche per la maggior parte della classe media. I servizi pubblici sono invece pochi e spesso di qualità scadente.
La spesa pubblica sociale in Cile è circa l’11 per cento del Pil rispetto alla media Ocse del 20 per cento (dati 2018). Le entrate fiscali sono pari al 20 per cento del Pil, rispetto a una media Ocse del 34 per cento. In più, del totale delle entrate fiscali solo l’8,8 per cento è rappresentato da imposte pagate sul reddito degli individui, mentre più della metà sono imposte sul consumo. Se lo si paragona con i paesi avanzati, il Cile ha quindi sia una tassazione bassa – e nella sostanza regressiva – sia una spesa pubblica limitata. Ma con poche tasse, pochi trasferimenti e poca spesa pubblica è anche debole l’impatto redistribuivo della politica fiscale. Questa è la differenza principale tra il Cile e gli altri paesi Ocse: con l’intervento pubblico non migliora la distribuzione del reddito. Calcolando l’indice di Gini – i cui valori vanno da zero per la perfetta uguaglianza a 1 per la massima disuguaglianza – per i redditi prima delle tasse e dei trasferimenti, la distribuzione del reddito in Italia (0,517 nel 2016) e negli Stati Uniti d’America (0,505 nel 2017) risulta più iniqua rispetto al Cile (0,495 nel 2017). Ma quando l’indice di Gini viene calcolato sul reddito disponibile, cioè dopo le tasse e i trasferimenti, la distribuzione del reddito migliora molto in Italia (0,328) e negli Stati Uniti (0,390), mentre quasi non cambia in Cile (0,46) (dati da Oecd Income Distribution Database).
La via delle riforme
Il presidente Piñera sembra ora consapevole della gravità della situazione, arrivando a cancellare due eventi internazionali molto importanti che si sarebbero dovuti tenere in Cile nei prossimi due mesi: il vertice Apec e la Cop-25. Ancora poco prima dell’inizio delle manifestazioni, in un’intervista lo stesso presidente aveva dichiarato che in America Latina “(…) il Cile sembra un’oasi (…)”: il Financial Times, a cui era stata rilasciata, l’ha pubblicata proprio il 17 ottobre, il giorno delle prime proteste.
Il milione di cileni che ha manifestato a Santiago il 25 ottobre chiede uno stato sociale migliore, chiede riforme fiscali che redistribuiscano in modo reale e significativo le risorse e forniscano allo stato i mezzi per costruire infrastrutture e per offrire servizi pubblici funzionanti. Dal ritorno alla democrazia, le riforme sociali intraprese dai governi cileni non sono state in grado di apportare veri cambiamenti strutturali al sistema di protezione sociale ereditato dalla dittatura. Il Cile potrebbe farlo ora senza mettere in crisi la stabilità dei conti pubblici, perché la pressione fiscale è ancora bassa. Il miglioramento del capitale umano e della produttività del lavoro porterebbe benefici a tutto il paese. Anche le classi più ricche, che nel breve periodo dovrebbero pagare il costo in termini di maggiore tassazione, ne avrebbero un ritorno positivo in termini di maggiore crescita futura.
C’è quindi la speranza che i cileni possano trovare un accordo per un nuovo patto sociale, più inclusivo e sostenibile.
fonte: lavoce.info
Antonella Mori è ricercatore universitario di Politica Economica presso l’Università Bocconi, dove insegna i corsi di Macroeconomia e Scenari Economici. E’ Head del Programma America Latina dell’ISPI di Milano. I suoi interessi di ricerca riguardano l’economia dell’America Latina e i rapporti tra America Latina e Unione Europea. Nel 2011 ha ricevuto dal Ministero degli Affari Esteri il riconoscimento per aver favorito il rafforzamento delle relazioni Italia-America Latina. Ha conseguito la laurea in Discipline economiche e sociali presso l’Università Bocconi, il Master in Economics of Latin America presso il Queen Mary and Westfield College (University of London) e il Dottorato di ricerca in Scienze economiche presso l’Università Cattolica di Milano.