Il ticket sui farmaci e accertamenti diagnostici è ormai un terreno di confronto anche all’interno dell’attuale governo. Si tratta di un groviglio, di una selva di provvedimenti nazionali e regionali, da cui è difficile uscire anche perché il suo gettito, che si avvicina ai tre miliardi, non è facilmente rimodulabile; dall’altro canto tale balzello (“mettono le mani nelle tasche degli italiani”, direbbe qualcuno), che si attua in modo capillare e nel corso dell’anno, è difficilmente prevedibile e quantificabile da parte del singolo soggetto, suscitando un diffuso risentimento e orienta una parte degli utenti a rivolgersi ai privati, spesso meno costosi o con tariffe analoghe al ticket. A tutt’oggi non emerge un’ipotesi organica di riforma complessiva del sistema, che proponga una discontinuità nella politica delle compartecipazioni, con un’azione da attuare in modo progressivo nel corso della legislatura.
L’unico modo di venirne fuori, da questa selva, è disboscarla, evitando annunci generici e ipotesi non adeguatamente studiate. Il nuovo ministro ha dichiarato alcuni giorni fa di voler mettere mano ai ticket, facendo pagare di più a chi è più ricco mentre attualmente – ha affermato – non conta quanti soldi hai e se sei un miliardario o una persona in difficoltà economica. Infatti, al di là delle soglie di esenzione, si paga sempre la stessa cosa. Questa ipotesi non pare tuttavia, allo stato attuale, essere recepita dalla Presidenza del Consiglio. Introdurre un ticket che si afferma debba essere in base al reddito (o all’ISE dove funziona?), come già attuato dalla Regione Toscana, è un’ipotesi che potrebbe sembrare equa e intende prospettare un’analogia con un principio fondativo della fiscalità generale: la progressività.
Ma in realtà il sistema dei ticket non funziona così! Si paga, nella proposta avanzata dal Ministro e nella esperienza attuata da alcune Regioni – è bene specificarlo – non in relazione alla propria ricchezza (definiamo così il reddito e l’ISE), ma tutti uguali all’interno di una determinata fascia.
Chiariamolo attraverso un esempio: Silvio Berlusconi ha un reddito di 48 milioni di Euro, Giulia Bongiorno di 2.833.488 €, l’ingegner Fabio Fantechi di 162.324 € e il dottor Ademaro Vannucchi (medico in pensione) di 108.217 € (i redditi di Fantechi e Vannucchi sono inventati come i personaggi, quelli di Berlusconi e Bongiorno derivano invece dalle dichiarazioni pubbliche dei parlamentari). Appartengono tutti alla fascia di reddito che viene tassata per l’aliquota massima, che è il 43%. Quando però pagano il ticket non pagano in proporzione al reddito, ma tutti uguali, il Vannucchi e il Fantechi, come Berlusconi e la Bongiorno!
Vi è poi una seconda distorsione; in realtà l’esborso che effettuano sarà solo in relazione a quanto necessitano ricorrere a farmaci e prestazioni e poiché l’ingegner Fantechi è pieno di acciacchi, come il suo vicino Vannucchi e la Bongiorno sana come un pesce, mi auguro, (e peraltro con un’assicurazione privata come tutti i parlamentari), il Fantechi e il Vannucchi sono, come si suol dire, becchi e bastonati. Distorsioni analoghe, seppure più limitate, sono all’interno delle altre fasce. Chi guadagna 36.000 Euro e deve effettuare molteplici analisi paga assai più, ovviamente, di chi guadagna 70.000 e, per sua fortuna, ricorre raramente al servizio sanitario nazionale.
E poi chi paga, di fatto il ticket? Chi è quel 46% dei ricorrenti a prestazioni che sono sottoposti a tale prelievo? Coloro che pagano le tasse e quindi, in misura assolutamente prevalente, pensionati e dipendenti pubblici e privati. Mentre altre categorie ne sono, in linea di massima, esenti. Si tratta fra gli altri di gestori di bar, taxisti, gioiellieri, proprietari di imprese individuali che denunciano mediamente meno di 18.000 euro annui, cioè una cifra inferiore a quella che dichiarano i loro dipendenti. Si è poi, negli ultimi anni, introdotto un’ulteriore elemento di distorsione dovuto al fatto che alcune categorie di lavoratori dipendenti, attraverso il welfare contrattuale, vengono rimborsati della spesa sostenuta per il ticket, eliminando altresì ogni funzione residuale di disincentivazione di comportamenti opportunistici e rilevandone, nel contempo, le caratteristiche di tassa sulla malattia. Tale sistema è, grazie alle agevolazioni fiscali, a carico della comunità e conseguentemente anche di quelli che già pagano tasse e ticket! Ora capisco che noi non viviamo in un mondo ideale e le ragioni di adottare un criterio a fasce, come già realizzato in Toscana, sono quelle di non ridurre il gettito da ticket facendo presa sui, teoricamente, più abbienti (e sui più bisognosi di ricorso alla sanità!) e di allargare conseguentemente la fascia degli esenti. Tuttavia questa profonda distorsione deve essere ben presente e valutata; non si può trattare il ticket applicando ad esso i criteri – e gli slogan o le condivisibili parole d’ordine – della progressività della tassazione.
La stortura di fondo sta infatti nella graduale e continua trasformazione della compartecipazione da una modalità di disincentivare comportamenti opportunistici a una tassa, peggio di una flat tax, poiché all’interno di ogni fascia di reddito tale prelievo è – necessariamente – uguale e non proporzionale, mentre la flat tax consiste in una percentuale, seppure identica, sul reddito. Un incremento del ticket per fasce di reddito sarebbe piuttosto analogo a un aumento dell’IVA riservato agli acquirenti con redditi medio alti e riferito a un prodotto che si è costretti ad acquistare sulla base di indicazioni – prescrizioni del servizio pubblico! Dall’esperienza toscana è emerso un altro rilevante effetto collaterale: il ticket così elevato ha orientato molte persone non esenti verso il privato e, in particolare, il privato cosiddetto sociale, che offre tariffe basse (e qui si aprirebbe un capitolo sulla retribuzione del personale utilizzato) e per lo più in tempi più rapidi. Un primo passo, una spintarella, verso l’abbandono del Ssn?
Che fare? Lasciamo tutto così?
Il problema è complesso e deriva proprio dalla trasformazione del ticket da modalità volta a ridurre comportamenti opportunistici (spreco di farmaci, utilizzo improprio del pronto soccorso), che attualmente possono essere adeguatamente controllati e contrastati tramite l’informatizzazione delle prescrizioni, gli accordi con i medici di medicina generale, il monitoraggio della attività, etc., in una vera e propria tassa sulla malattia.
L’obiettivo, anche per collocare le iniziative che sta avviando il Ministero su tale tematica, dovrebbe essere quello di ricondurre progressivamente il ticket alla sua primigenia funzione.
L’attuale gettito (2018) è pari a 2.964 milioni €, che corrisponde a una quota pro capite di 49,1 €. La percentuale maggiore è deriva dalla compartecipazione alla spesa farmaceutica (1.609 milioni, di cui tuttavia la massima parte, 1.126 milioni, per il differenziale fra prezzo di riferimento e scelta, da parte del cittadino, del farmaco di marca). Le prestazioni specialistiche incidono per 1.359 milioni, di cui 44,2 per ricorso inappropriato al pronto soccorso.
Una riforma complessiva dovrebbe orientarsi a mantenere il ticket sulla differenza fra prezzo di riferimento e farmaco brand e quello sull’uso improprio del pronto soccorso, introducendo inoltre una partecipazione minimale (pochi euro) sulle ricette (da cui escludere una fascia ristretta di redditi bassi) finalizzata a responsabilizzare nell’uso del farmaco, nella sua conservazione e nella adesione alle terapie ed eliminando la compartecipazione per accertamenti e visite specialistiche. Risorse aggiuntive dovrebbero pervenire da una crescita nella appropriatezza prescrittiva e nell’uso dei farmaci (e loro confezionamento) e, nelle realtà in cui non si raggiungessero tali obiettivi, in una – peraltro assai contenuta – tassa di scopo. Questa si proporzionale al reddito, cosa che la tassa sulla salute (ticket), con ogni evidenza, non lo è!
fonte: SALUTEINTERNAZIONALE