«Vengono per delinquere»: logiche e cicli di criminalizzazione dell’immigrazione. di Marcello Maneri

La ricerca sociologica sulla devianza ha mostrato negli ultimi decenni come la criminalità non sia qualcosa di oggettivo, che sta là fuori in attesa di essere identificato, misurato e combattuto, ma piuttosto un fenomeno costruito socialmente. L’aggettivo «criminale», ovvero il processo di criminalizzazione attraverso il quale comportamenti e individui sono trattati come crimini e criminali, è prodotto da decisioni politiche e procedure organizzative. Queste attività richiedono delle scelte, delle interpretazioni e delle allocazioni di risorse che sono fortemente condizionate dal modo in cui il problema sociale in oggetto è stato costruito e da quanto efficacemente esso ha fatto «carriera» nell’arena pubblica, anche grazie all’attività di gruppi di pressione che sono riusciti a etichettarlo con successo come un problema sociale prioritario, di natura criminale. La criminalizzazione si presenta dunque come un processo integrato di pratiche istituzionali, sociali e simboliche, che necessita di un ‘lavoro culturale’, che naturalizzi lo status di un gruppo come «criminale» e legittimi le pratiche attraverso le quali esso è trattato come tale. In questo lavoro culturale le politiche funzionano come linguaggio e i discorsi, con le loro conseguenze, sono a tutti gli effetti pratica politica. Nell’interazione tra istituzioni, partiti, gruppi di pressione, media ed «esperti» vengono compiute delle azioni, ma allo stesso tempo messa in scena una rappresentazione, nella quale si definisce l’idea e si creano le condizioni per la produzione dell’immagine dell’immigrato pericoloso e potenzialmente criminale e per la sua persecuzione.

Le coordinate per la definizione di un quadro normativo sovranazionale sull’immigrazione sono state fissate dagli accordi di Schengen. Sin dall’inizio, l’immigrazione è stata inserita in un framework politico che metteva a fuoco i pericoli per la sicurezza ed è stata trattata come un pericolo quanto il terrorismo e il traffico di droga. L’applicazione dei dispositivi di controllo delle frontiere ha fornito l’occasione per la produzione di rappresentazioni incentrate sulla nuova categoria dell’«immigrato clandestino». Una volta messi in primo piano attraverso il sistema dell’informazione e rappresentati in misura crescente come pericolo, i «clandestini» e l’immigrazione tutta hanno finito per diventare ancor di più uno dei target principali dell’azione delle forze dell’ordine, in virtù dell’«allarme sociale» da essi suscitato. Le rappresentazioni dei «clandestini» e del «degrado» da essi portato hanno raggiunto la loro apoteosi politica negli anni duemila, quando il «paradigma della sicurezza», ovvero la tendenza a interpretare e a intervenire sui più vari fenomeni di disagio sociale in termini di minacce per l’ordine pubblico e l’incolumità del cittadino autoctono, ha fatto una «carriera» straordinaria.

Questo paradigma si presenta sotto forma di cicli di rivendicazione e criminalizzazione che partono da «emergenze» legate ad apparenti ondate di criminalità o «invasioni», le quali tendono a verificarsi durante le esperienze di governo del centro-sinistra e si concludono con la vittoria elettorale del centro destra. L’apparente storia naturale di questi cicli, in realtà frutto di pattern di azione e reazione che sono frutto delle scelte di strategia politica dei loro protagonisti, attraversa tipicamente le fasi di rivendicazione, rincorsa, crisi, conquista, soluzione, criminalizzazione e quiescenza. Qualificando un potenziale pericolo come minaccia assoluta e facendone un’emergenza, i cicli di rivendicazione e criminalizzazione creano le condizioni per una criminalizzazione crescente dei migranti. Questo ultimo decennio ha visto l’aumento esponenziale delle sofferenze patite da migranti e richiedenti asilo e delle morti in mare dovute ad una securizzazione dei confini europei sempre più militarizzata.

Questa «necropolitica» può essere attuata solo a due condizioni: la prima è la condizione del silenzio, la necessità che rimangano invisibili i respingimenti di massa, i mancati salvataggi in mare, le torture e gli abusi nei centri di detenzione libici e le responsabilità che in tutto questo hanno le politiche europee. La seconda condizione è che questa politica sia giustificata da una minaccia incombente, che deve essere continuamente rinnovata e validata. Quando queste condizioni vengono meno, ad esempio di fronte a una crisi umanitaria di inedite proporzioni, che mette al centro le sofferenze dei migranti suscitando sentimenti di compassione, lutto e talvolta colpa, puntualmente gli apparati politico-istituzionali si incaricano di provvedere alla riparazione del dispositivo narrativo inceppato. Per chi opera dentro le coordinate del paradigma dell’assedio – che si tratti degli apparati di controllo o degli imprenditori della paura – questo è infatti un cambio di programma altamente problematico, che fa venir meno contemporaneamente silenzio e minaccia, le due condizioni di praticabilità delle politiche dell’assedio. È necessario allora ristabilire l’ordine del discorso e, soprattutto, i ruoli di vittima e persecutore.

Le istituzioni e gli imprenditori politici della paura seguono a questo proposito strategie diverse. In comune hanno un principio vecchio come il mondo: per sbarazzarsi di un dovere morale è necessario privare della morale il suo preteso beneficiario. Per le istituzioni si è trattato di «mostrificare» gli «scafisti», presentati come perfidi responsabili delle morti in mare, poi di costruire come potenziale nemico i rifugiati stessi, con i ripetuti alarmi sulle infiltrazioni di terroristi tra loro, e infine di etichettare come fiancheggiatrici le ong impegnate nelle operazioni di ricerca e soccorso in mare, accusandole di prendere accordi con gli «scafisti». Agli imprenditori politici della paura è invece bastato recuperare il vecchio copione delle rivolte di quartiere contro il «degrado», riattualizzandolo nei bersagli, ora profughi, e nell’arsenale mediatico, arricchito da intere trasmissioni televisive e flame war sui social. Avviando un nuovo ciclo di rivendicazione e criminalizzazione gli imprenditori della paura sono ancora una volta riusciti ad andare al governo usando frame solo debolmente contestati dai loro avversari.

Il testo è la sintesi dell’articolo pubblicato nella sezione Tema del n. 2 2019 di Rps e scaricabile
dagli abbonati nella versione integrale al link: RPS 2/2019

fonte: RPS LA RIVISTA DELLE POLITICHE SOCIALI FREE TEXT

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