Piergiorgio Welby (PW), malato di distrofia muscolare progressiva dall’adolescenza, dopo una crisi respiratoria (14-7-97), quantunque chiedesse di essere lasciato morire, fu sottoposto a tracheotomia e attaccato ad un ventilatore meccanico.
Welby parlava di richiesta di eutanasia; voleva essere sedato e poi che gli venisse staccato il respiratore. Nel 2002 si iscrisse ai radicali per avere una legge sull’eutanasia e all’associazione Luca Coscioni; scrisse a Francesco D’Agostino Presidente del Comitato Nazionale di Bioetica (CNB). Nel settembre 2006 scrisse una lettera al Presidente Giorgio Napolitano per richiedere l’eutanasia e nel dicembre il Ministro della salute Livia Turco sollecitò il Consiglio Superiore di sanità a dare una risposta, ma questo risponde negativamente alla richiesta di Welby, sostenendo che le cure che lo tengono in vita non sono da configurarsi come accanimento. Il 16-12-06 il Tribunale di Roma negò l’interruzione della Ventilazione Meccanica di PW. Non gli rimaneva altro che la disobbedienza civile. Il Dr. Mario Riccio, anestesista di Cremona, si assume la responsabilità di fare come PW chiedeva: dopo averlo sedato, lo distacca dal respiratore artificiale che lo tiene in vita in data 20-12-2006 h 23; alle 23:45 morì. Il 21-12-06 Riccio si autodenuncia in conferenza stampa; fu subito interrogato dalla DIGOS. Il primo procedimento di Riccio fu fatto dall’Ordine dei Medici di Cremona che riaffermò la volontà chiara e precisa del paziente completamente consapevole, e che l’anestesista non somministrò sostanze illegali; l’OdM dispone l’archiviazione. Anche il Tribunale di Roma in sede penale arriva alla stessa conclusione, ma l’archiviazione non avvenne per decisione del GIP che lo rinvia a giudizio, ma per decisione del giudice dell’Udienza Preliminare che archivia in base all’art. 13, accettando così il legittimo rifiuto del paziente; Riccio fu prosciolto in base all’art. 51 del c.p. Il GUP Zaira Zecchi lo proscioglie dall’accusa di omicidio del consenziente con la sentenza del 17-10-2007 (Vedi Nota a). Il Vaticano non concederà assoluzioni, negando a Welby i funerali in Chiesa.
Importante è quanto afferma Mario Riccio sul ruolo che il medico deve avere nella sospensione delle cure salvavita; dal suo diario riporto le sue parole: “[…] Cerco il pulsante per spegnere il ventilatore. Me lo indica Mina. Per un attimo sembra quasi voglia dirmi: «Lascia, lo faccio io». No, sono i medici che collegano i pazienti ai ventilatori. Perché dovrebbero essere i pazienti o addirittura i parenti a staccarli?”[1] .Sempre dal suo diario viene affermato anche il ruolo indispensabile del medico non solo per quanto riguarda le procedure sanitarie per l’attuazione della sospensione della ventilazione meccanica, ma anche per quanto riguarda il suo ruolo nell’instaurare lo stretto rapporto col paziente necessario per capire il suo grado di sofferenza psico-fisica; Riccio parla di empatia che definirei “cognitiva” e non “emotiva”, cioè per cercare di capire cosa un’altra persona sta provando senza entrare nel turbine dei suoi sentimenti[2] (Vedi Nota b).
Ci vorranno più di dieci anni prima che venga approvata la Legge 219/2017 – . Norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento – [3] e che, con gli art. 1.5 e 1.6 (Vedi Nota c), possa essere data una risposta a quella che era la volontà di Welby e a quella di tanti altri ammalati che si trovavano nella sua condizione. Verranno così riconosciuti i seguenti principi:
- Autodeterminazione delle scelte sanitarie
- La nutrizione e l’idratazione artificiale rappresentano forme di terapia
- È consentita la non attuazione – sospensione di un trattamento salvavita
- La non attuazione – sospensione di un trattamento salvavita non prevede l’obiezione di coscienza
- Il medico non incorre in condanne penali o civili nel non attuare o sospendere cure salvavita
Venendo alla storia di Fabiano Antoniacci detto DJ Fabo (DJF), vorrei ricordare quanto su lui riportato nel documento 207/2018 della Corte Costituzionale chiamata a stabilire la costituzionalità dell’art. 580 del c.p.[4] (Vedi Nota d) dove tra l’altro si afferma che la sua decisione di cessare la propria esistenza era maturata dopo due anni che era tetraplegico, non vedente con dipendenza dal ventilatore meccanico per la respirazione e dalla PEG per l’alimentazione (Vedi Nota e). Vorrei anche sottolineare il fatto che Marco Cappato, chiamato per accompagnarlo nel centro in Svizzera dove può essere eseguita la procedura del suicidio assistito, chiede a DJF se voleva essere sottoposto a sedazione continua profonda fino alla morte per eliminare ogni sensazione di soffocamento una volta staccato il ventilatore (procedura legale in base alle leggi vigenti). DJF la rifiuta in considerazione del fatto che non essendo totalmente dipendente dal respiratore artificiale, la morte sarebbe sopravvenuta solo dopo un periodo di apprezzabile durata, quantificabile in alcuni giorni: modalità di porre fine alla propria esistenza che egli reputava non dignitosa e che i propri cari avrebbero dovuto condividere sul piano emotivo.
Luciano Orsi, Vicepresidente della Società Italiana Cure Palliative, riguardo al problema del suicidio assistito e alla vicenda di DJF afferma già dal 2017: ”[…] Teniamo presente che le cure palliative accompagnano il malato nella fase finale di vita per alleviargli le sofferenze, però non sono un percorso che accelera la morte. Ci sono persone che quindi non le ritengono idonee con il proprio progetto, che è quello di chiudere la vita in anticipo rispetto al percorso della malattia. A queste persone, che statisticamente si aggirano intorno al 2-4% della popolazione, anche il miglior servizio di cure palliative nazionale non offre una risposta.”.[5]
Dalla esposizione delle due vicende di PW di DJF, appaiono evidenti alcune similitudini soprattutto riguardanti la sofferenza fisica e psichica di entrambi racchiusi in corpo diventato una “prigione”, come è stato poi definito dal Comitato Nazionale di Bioetica[6] , che ha fatto loro maturare negli anni la decisione di sospendere anticipatamente la propria esistenza. Non si tratta quindi di una «strada sbrigativa»[7] , come paventato dalla Chiesa ed in particolare da Papa Francesco, ma di una scelta sofferta che va contro l’istinto naturale di sopravvivenza. Anche se esiste la differenza riguardante il tempo necessario per arrivare alla morte, una volta cessata la ventilazione meccanica, minuti per Welby e giorni per DJF, in realtà entrambi hanno richiesto l’aiuto per morire che solo un medico poteva loro dare, con la sospensione delle terapie salvavita o con l’aiuto al suicidio. Proprio per questa similitudine, non però riconosciuta dalle leggi vigenti, la Consulta è stata chiamata a dovere esprimersi sulla costituzionalità dell’art. 580 del c.p. Per il caso Welby la legge vigente infatti (Legge 219/2017) stabilisce non solo la possibilità della sospensione delle cure, ma anche la non punibilità, sia da un punto di vista sia penale che civile, del medico anche se si tratta di terapie salvavita, mentre per il caso di DJF l’aiuto alla cessazione della propria esistenza è punita con la reclusione fino a 12 anni in base all’art. 580 del c.p. Si tratta di due procedure diverse come sottolineato dal CNB, il fine è lo stesso.
La Consulta non poteva quindi che esprimersi per l’incostituzionalità dell’art. 580 del c.p. col comunicato del 25 settembre[8] che stabilisce però che:
“[…] ritiene non punibile l’articolo 580 del c. p. chi agevola l’esecuzione del proposito di suicidio a determinate condizioni:
- Scelta del paziente autonomamente e liberamente formatosi,
- Il paziente è tenuto in vita da trattamenti di sostegno vitale e
- È affetto da una patologia irreversibile,
- Presenta sofferenze fisiche o psicologiche che egli reputa intollerabili
- È pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli.”
La Consulta stabilisce anche che:
“[…] la Corte ha subordinato la non punibilità anche al
- Rispetto delle modalità previste dalla normativa sul consenso informato,
- Applicazione delle necessarie procedure sulle cure palliative e
- Sulla sedazione profonda continua (articoli 1 e 2 della legge 219/2017) e
- Alla verifica sia delle condizioni richieste che delle modalità di esecuzione da parte di una struttura pubblica del SSN,
- Che venga sentito il parere del comitato etico territorialmente competente.”
Vengono così ribadite alcune limitazioni all’aiuto al suicidio, già espresse dal Comitato Nazionale di Bioetica (CNB)[6] , che stabilisce la legittimità della richiesta di aiuto al suicidio se esiste:
- La presenza di una malattia grave e irreversibile accertata da almeno due medici indipendenti (uno dei quali del SSN);
- La presenza di uno stato prolungato di sofferenza fisica o psichica di carattere intrattabile o insopportabile per il malato;
- La presenza di una richiesta esplicita espressa in forma chiara e ripetuta, in un lasso di tempo ragionevole”
Il CNB precisa anche che: “[…] La comunicazione tra medico e paziente deve avvenire nel modo più appropriato possibile e spetta al medico, in prima battuta, accertare che la richiesta risponda alle condizioni di garanzia previste dalla legge. Dalla documentazione, data in genere nella cartella clinica, deve risultare che il paziente sia stato chiaramente informato sulla natura della sua malattia, sui possibili sviluppi di cure multidisciplinari e anche di prodotti in corso di sperimentazione e mirati su quelle patologie di cui è affetto il paziente e sull’effettiva possibilità di un coinvolgimento in un percorso di efficaci e continue cure palliative.”
Il CNB giustamente precisa anche che “[…] in ogni caso, di fronte alla richiesta di essere aiutati a morire, l’approccio che ispira l’etica dell’accompagnamento nel morire è quello dell’ascolto, dell’interpretazione della richiesta: ad ogni soggetto che, in condizioni di particolare vulnerabilità fisica e psichica, manifesti la volontà di morire, deve essere dedicato un ascolto particolare, perché il medico possa comprendere cosa significhi la sua richiesta. Per queste ragioni la decisione di prestare assistenza medicalizzata al suicidio, pur nel rispetto di condizioni e criteri prestabiliti, non può diventare un automatismo, ma deve sempre essere presa pensando alla persona che la chiede e alla situazione specifica.”
Sia il documento della Consulta che quello del CNB considerano quindi il medico il referente elettivo nel rispondere al paziente alla sua richiesta di aiuto al suicidio.
Alla decisione della Consulta risponde Filippo Anelli, il Presidente della FNOMCeO[9] , con: “[…] «Non potrà non essere prevista l’obiezione di coscienza (Art. 22): se si devono rispettare i convincimenti profondi di ogni cittadino, tra questi ci sono anche i medici»” e con “[…] «In una futura legge, credo che le procedure che portano al suicidio non possano essere avviate da un medico: magari da un funzionario, che prenda atto della volontà del cittadino e verifichi i requisiti prescritti dalla Corte. Nel nostro Codice deontologico (art. 17) è fermo il divieto di effettuare o favorire atti finalizzati a provocare la morte del paziente, anche su sua richiesta.»” (Vedi Note f, g).
Rimango perplesso di fronte a queste affermazioni; non tanto per l’obiezione di coscienza già richiesta durante il dibattito della Legge 219/2017 che però con l’Art. 1.6 stabilisce che la volontà del paziente è sovrana, quanto per il delegare l’attività del medico ad un funzionario statale che possa aiutare al suicidio il paziente; il medico sembra così volersi tirare indietro dalla problematica, volersene lavare le mani e smettere così di essere medico. Dove sono finiti tutti i bei propositi del volere prendersi cura del malato e non solo della sua malattia?
Come potrà il medico stabilire se le sofferenze patite dal paziente siano o meno da considerarsi intollerabili, dato che spetta al solo paziente stabilire la sopportabilità o meno delle proprie sofferenze, come richiesto dalla Consulta e dal CNB per stabilire la legittimità alla richiesta di aiuto al suicidio? E ancora come potrà un medico esprimere serenamente la legittimità al suicidio assistito se il medico è preliminarmente contrario per motivi personali a questa procedura?
Personalmente credo che ogni persona possa decidere autonomamente sulla propria vita. Maimonide (Cordova 1135 – al-Fustat, Egitto 1204) grande figura di rabbino e medico diceva che “dio da all’uomo l’obbligo e la responsabilità di preservare la propria vita, deve però essere l’uomo stesso l’ultimo a decidere sul proprio corpo”[11] . Il medico deve essere a disposizione dell’altro per lenire le sue sofferenze totali, fisiche e spirituali. Emmanuel Lévinas, filoso ebreo del novecento (1906 Lituania -1995 Parigi) scriveva: “[…] l’obbligo fondamentale che abbiamo (e a maggior ragione noi medici, (nota personale)) è quello di metterci a disposizione del bisogno (specialmente della sofferenza) dell’altra persona” e «[…] se ci si sente obbligati solo verso coloro che possiamo considerare “come noi” (e quindi con gli stessi nostri valori, (Vedi nota personale) allora non si è affatto etici, anzi siamo ancora intrappolati all’interno del nostro ego – ossia, la nostra: etica è, in fondo, “narcisismo”[12]».
Primo Levi in “Se questo è un uomo” scrive “[…] la sicurezza della morte, impone un limite a ogni gioia, ma anche a ogni dolore”[13]
Note
Nota a. Nella sentenza si trova scritto tra l’altro: […] L’affermazione della Carta costituzionale sancisce l’esclusione della coazione in tema di trattamenti sanitari (e quindi la necessità del consenso del malato) e ha come necessaria conseguenza il riconoscimento anche della facoltà di rifiutare le cure o di interromperle che, a sua volta non può voler significare l’implicito riconoscimento di un diritto al suicidio, bensì soltanto l’inesistenza di un obbligo a curarsi a carico del soggetto. […] Il diritto al rifiuto dei trattamenti fa parte dei diritti individuali della persona, di cui all’articolo 2 della Costituzione, e si collega strettamente al principio di libertà di autodeterminarsi riconosciuto all’individuo dall’articolo 13 della Costituzione stessa.[1]
Nota b. Sempre dal diario di Mario Riccio[1]:
“[…] Entro e chiedo a Welby se è pronto e se posso iniziare a sedarlo. Avevamo concordato lunedì che l’inizio della sedazione coincidesse con il distacco del ventilatore. Né prima né dopo. In modo che potesse stare il più possibile con i familiari e gli amici ma non dovesse avvertire da cosciente la fase di arresto respiratorio”
“[…] Lui chiede di iniziare e io parto con il primo sedativo (midazolam) e con la infusione del secondo (propofol), una dose sola in siringa che poi utilizzerò per mantenere la sedazione. Quando inizio avverto Welby, e lui lo vede. Come gli ho spiegato entro pochi secondi gli verrà sonno. Lui risponde annuendo. Lo saluto: «Ciao, Piergiorgio, ora riposerai». Guarda con gli occhi verso l’alto. Da questo momento non dirò più niente, come se lo lasciassi solo con i suoi familiari”
“[…] Certo ci sono il Codice deontologico, la letteratura scientifica a orientare il comportamento del medico quando si rende conto che una terapia, pur garantendo la sopravvivenza del paziente, non consente una qualità di vita per lui accettabile. Ma non ci sono Codice, corso di counseling o master di bioetica che bastino a insegnare come mettersi in relazione con l’altro, il malato, come essere disponibili all’ascolto. Ci vuole qualcosa di più per stabilire un rapporto di empatia e capire le esigenze, le paure, le sofferenze, i bisogni dell’altro”.
“[…] dalle parole di Welby: «Questa è una delle patologie più crudeli; pur lasciando intatte le capacità intellettive, costringe il malato a confrontarsi con tutti gli handicap conosciuti […] poi arrivano l’insufficienza respiratoria e la tracheotomia». La patologia distrugge progressivamente le funzioni muscolari: il malato prima diventa paraplegico e quindi tetraplegico e poi, allo stadio finale, incapace di respirare senza il supporto di una macchina per la ventilazione polmonare che assicuri l’ossigenazione, incapace di alimentarsi senza nutrizione artificiale, nella totale impossibilità di muoversi e di parlare (Welby si esprimeva grazie a un apposito software). Mantenere il malato libero da infezioni respiratorie, da piaghe da decubito, da alterazioni metaboliche richiede uno sforzo quotidiano straordinario. I trattamenti praticabili non arrestano in alcun modo l’evoluzione del male: prolungano le funzioni essenziali della sopravvivenza biologica, differendo nel tempo la morte.”
Nota c. Legge 219/2017
Art. 1 Comma 5 Legge 219/2017. “Ogni persona capace di agire ha il diritto di rifiutare, in tutto o in parte, con le stesse forme di cui al comma 4, qualsiasi accertamento diagnostico o trattamento sanitario indicato dal medico per la sua patologia o singoli atti del trattamento stesso. Ha, inoltre, il diritto di revocare in qualsiasi momento, con le stesse forme di cui al comma 4, il consenso prestato, anche quando la revoca comporti l’interruzione del trattamento. Ai fini della presente legge, sono considerati trattamenti sanitari la nutrizione artificiale e l’idratazione artificiale, in quanto somministrazione, su prescrizione medica, di nutrienti mediante dispositivi medici. Qualora il paziente esprima la rinuncia o il rifiuto di trattamenti sanitari necessari alla propria sopravvivenza, il medico prospetta al paziente e, se questi acconsente, ai suoi familiari, le conseguenze di tale decisione e le possibili alternative e promuove ogni azione di sostegno al paziente medesimo, anche avvalendosi dei servizi di assistenza psicologica. Ferma restando la possibilità per il paziente di modificare la propria volontà, l’accettazione, la revoca e il rifiuto sono annotati nella cartella clinica e nel fascicolo sanitario elettronico”
Art. 1. Comma 6 “Il medico è tenuto a rispettare la volontà espressa dal paziente di rifiutare il trattamento sanitario o di rinunciare al medesimo e, in conseguenza di ciò, è esente da responsabilità civile o penale. Il paziente non può esigere trattamenti sanitari contrari a norme di legge, alla deontologia professionale o alle buone pratiche clinico-assistenziali; a fronte di tali richieste, il medico non ha obblighi professionali.”
Nota d. Art. 580 c.p.: “Chiunque determina altri al suicidio o rafforza l’altrui proposito di suicidio, ovvero ne agevola in qualsiasi modo l’esecuzione, è punito, se il suicidio avviene, con la reclusione da cinque a dodici anni. Se il suicidio non avviene, è punito con la reclusione da uno a cinque anni, sempre che dal tentativo di suicidio derivi una lesione personale grave o gravissima [583]”
Nota e «[…] All’esito di lunghi e ripetuti ricoveri ospedalieri e di vari tentativi di riabilitazione e di cura (comprensivi anche di un trapianto di cellule staminali effettuato in India nel dicembre 2015), la sua (di DJF) condizione era risultata irreversibile. Aveva perciò maturato, a poco meno di due anni di distanza dall’incidente, la volontà di porre fine alla sua esistenza, comunicandola ai propri cari. Di fronte ai tentativi della madre e della fidanzata di dissuaderlo dal suo proposito, per dimostrare la propria irremovibile determinazione aveva intrapreso uno “sciopero” della fame e della parola, rifiutando per alcuni giorni di essere alimentato e di parlare. […] Nel medesimo periodo, era entrato in contatto con Marco Cappato (M.C.), imputato nel giudizio, il quale gli aveva prospettato la possibilità di sottoporsi in Italia a sedazione profonda, interrompendo i trattamenti di ventilazione e alimentazione artificiale. […] l’interessato richiese l’assistenza al suicidio, scartando la soluzione dell’interruzione dei trattamenti di sostegno vitale con contestuale sottoposizione a sedazione profonda (soluzione che pure gli era stata prospettata), proprio perché quest’ultima non gli avrebbe assicurato una morte rapida. […] Non essendo egli, infatti, totalmente dipendente dal respiratore artificiale, la morte sarebbe sopravvenuta solo dopo un periodo di apprezzabile durata, quantificabile in alcuni giorni: modalità di porre fine alla propria esistenza che egli reputava non dignitosa e che i propri cari avrebbero dovuto condividere sul piano emotivo.» «[…] Il 25 febbraio 2017 era stato quindi accompagnato da Milano (ove risiedeva) in Svizzera, a bordo di un’autovettura appositamente predisposta, con alla guida l’imputato (M.C.) e, al seguito, la madre, la fidanzata e la madre di quest’ultima. In Svizzera, il personale della struttura prescelta aveva nuovamente verificato le sue condizioni di salute, il suo consenso e la sua capacità di assumere in via autonoma il farmaco che gli avrebbe procurato la morte. In quegli ultimi giorni, tanto l’imputato, quanto i familiari avevano continuato a restargli vicini, rappresentandogli che avrebbe potuto desistere dal proposito di togliersi la vita, nel qual caso sarebbe stato da loro riportato in Italia. Il suicidio era peraltro avvenuto due giorni dopo (il 27 febbraio 2017): azionando con la bocca uno stantuffo, l’interessato aveva iniettato nelle sue vene il farmaco letale.»
Nota f. «Nel contempo, impone al medico di rispettare la dignità del paziente, evitando ogni forma di accanimento terapeutico. In ottemperanza dell’autodeterminazione del paziente da un lato, e nel rispetto della clausola di coscienza del medico dall’altro, l’attuazione della volontà del paziente nel rifiutare le cure, pone il ricorso alla sedazione profonda medicalmente indotta, come attività consentita al medico in coerenza e nel rispetto dei precetti deontologici. Tutto ciò nel rispetto della dignità del morente.»
«In merito alla questione del suicidio assistito ed al pronunciamento della Corte Costituzionale attraverso l’Ordinanza 207/18 la CDN (Consulta Deontologica Nazionale della FNOMCeO) ritiene, quale incipit imprescindibile dell’agire medico, quanto stabilito nell’art. 17 che vieta ogni adempimento medico che procuri la morte del paziente.»
«Considerando la specifica questione del suicidio assistito, pur nel ribadire la posizione espressa nel CDN, porta la CDN a ritenere che la competenza dei medici sarà unicamente nei riguardi della relazione e della comunicazione della prognosi da parte dei curanti, nonché riguarderà la definizione clinica, delle condizioni previste dalla Corte affidata a un team clinico e medico legale, al fine di attuare la decisione suicidaria del paziente. Un diverso atteggiamento al solo fine prescrittivo, a parere della CDN, troverebbe infatti una preclusione nello stesso CDM (Codice di Deontologia Medica10) in considerazione del pieno convincimento clinico nel dover fronteggiare atteggiamenti autolesivi di diversa origine, per cui impegna il medico
– al rispetto dell’art.17.
– alla non prescrizione per compiacere la persona assistita (art.13)»
Nota g. Codice di Deontologia Medica
Art. 13
Prescrizione a fini di prevenzione, diagnosi, cura e riabilitazione
[…] La prescrizione a fini di prevenzione, diagnosi, cura e riabilitazione è una diretta, specifica, esclusiva e non delegabile competenza del medico, impegna la sua autonomia e responsabilità e deve far seguito a una diagnosi circostanziata o a un fondato sospetto diagnostico.
[…] Il medico non acconsente alla richiesta di una prescrizione da parte dell’assistito al solo scopo di compiacerlo.
Art. 17
Atti finalizzati a provocare la morte
Il medico, anche su richiesta del paziente, non deve effettuare né favorire atti finalizzati a provocarne la morte.
Art. 22
Rifiuto di prestazioni professionali
Il medico può rifiutare la propria opera professionale quando vengano richieste prestazioni in contrasto con la propria coscienza o con i propri convincimenti tecnico‐scientifici, a meno che il rifiuto non sia di grave e immediato nocumento per la salute della persona, fornendo comunque ogni utile informazione e chiarimento per consentire la fruizione della prestazione.
Bibliografia
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- Beres D. The Case Against Empathy. Bigthink.com, 22.09.2014
- Gazzetta Ufficiale della Repubblica Italiana. Legge 22 dicembre 2017, n. 219. Norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento.
- Corte Costituzionale. Giudizio di Legittimità Costituzionale in Via Incidentale. Ordinanza 207/2018
- Bertoncin B. Sistemare le cose. Intervista a Luciano Orsi. Una Città n° 240 / 2017 giugno.
- Comitato Nazionale di Bioetica. Riflessioni Bioetiche sul suicidio medicalmente assistito [PDF: 845 Kb]
- Vaticano. Eutanasia, il Papa «Non è scelta di libertà ma strada sbrigativa.» Corriere.it, Redazione di Roma, 20.09.2019
- Corte Costituzionale. Comunicato del 25 settembre 2019. In attesa del Parlamento la Consulta si pronuncia sul fine vita. [PDF: 128 Kb]
- Documento FNOMCeo. Consulta Deontologica Nazionale. «Documento conclusivo dei lavori della Consulta Deontologica Nazionale della FNOMCeO chiamata ad esprimere parere sui suicidio assistito in merito all’ordinanza 207/18 della Corte Costituzionale». [PDF: 845 Kb]
- FNOMCeO. Codice di Deontologia Medica [PDF: 286 Kb]
- Laras G. e Tedeschi M. Maimonide un percorso verso il benessere. Gruppo Editoriale Muzzio 2010
- Putnam Hilary. La filosofia ebraica, una guida di vita. Rosenzweig, Buber, Lèvinas, Wittgenstein. Ed. Carocci 2011
- Levi P. Se questo è un uomo [PDF: 469 Kb]. Ed. Einaudi Torino, 1989
fonte: SALUTEINTERNAZIONALE