Questo grasso grasso mondo. di Adriano Cattaneo

Tra le bambine e le adolescenti, la prevalenza globale di obesità era di 0,7% nel 1975, aumentata a 5,6% nel 2016. Tra i maschi della stessa età, la prevalenza di obesità è passata da 0,9% a 7,8% nello stesso periodo. Gli autori stimano che nel 2016 c’erano circa 124 milioni di bambini e adolescenti obesi nel mondo. Bambini e adolescenti sono più suscettibili degli adulti al marketing degli alimenti, il che rende la riduzione della loro esposizione ai cibi obesogenici necessaria se si vuole proteggerli dai conseguenti danni.

Il mondo sta ingrassando. Sapere che in Cina ci sono quasi 100 milioni di adulti obesi,[1più che negli USA, mette di per sé paura. E mette ancora più paura sapere che questi numeri sono destinati ad aumentare, perché aumentano i bambini e gli adolescenti con sovrappeso e obesità, destinati a portarsi dietro il loro indice di massa corporea (BMI) nel diventare adulti. E non aumentano solo in Cina, ma anche in India e negli altri popolosissimi paesi dell’Asia, dell’Africa, del Medio Oriente e dell’America Latina. Con le conseguenze che possiamo immaginare, anche se è difficile applicare la nostra immaginazione a numeri così grandi. Il Global Panel on Agriculture and Food Systems for Nutrition stima che nel 2030 potrebbero esserci 3,28 miliardi di individui in sovrappeso e obesi, circa il 30% della popolazione mondiale.[2]

La prevalenza di sovrappeso e obesità in bambini, adolescenti e adulti, e il suo aumento globale tra il 1975 e il 2016, sono l’oggetto di uno studio pubblicato sul Lancet alla fine del 2017.[3] Un gruppo di oltre 1000 ricercatori da tutto il mondo, riunito in una collaborazione che fornisce a governi e istituzioni sovranazionali dati sui principali fattori di rischio per le malattie non trasmissibili,[4] ha messo insieme i dati di 2416 studi di popolazione, con peso e altezza misurati, per un totale di quasi 130 milioni di persone da 5 anni di età in su (31,5 milioni tra 5 e 19 anni) in 200 paesi, cioè da tutto il mondo. Con peso e altezza, i ricercatori hanno calcolato il BMI e quindi la prevalenza globale di sovrappeso e obesità, oltre che di sotto peso, usando, per bambini e adolescenti, gli standard di crescita dell’OMS.[5] Come si può facilmente intuire, i metodi statistici usati per mettere assieme ed analizzare tutti questi dati sono molto complessi, ma gli autori hanno fatto il possibile per evitare di fare comparazioni tra mele e arance.I risultati, sotto forma di BMI medio standardizzato per età e di percentuale di individui con BMI 1, 2 o 3 deviazioni standard sopra e sotto la media, sono presentati per sesso e per 21 differenti aree geografiche, con l’eccezione dei paesi anglofoni ad alto reddito (Australia, Canada, Irlanda, Nuova Zelanda, Gran Bretagna e USA), infilati nello stesso gruppo anche se geograficamente non contigui.

Tra le bambine e le adolescenti, la prevalenza globale di obesità era di 0,7% nel 1975, aumentata a 5,6% nel 2016. Tra i maschi della stessa età, la prevalenza di obesità è passata da 0,9% a 7,8% nello stesso periodo. Nello stesso periodo, la prevalenza di sottopeso moderato e grave è diminuita da 9,2% a 8,4% nelle femmine e da 14,8% a 12,4% nei maschi. Le più elevate prevalenze di obesità nel 2016, attorno al 30% nelle femmine e al 20% nei maschi, si trovano in alcuni stati della Polinesia e della Micronesia, seguiti da Medio Oriente e Nord Africa, e poi da alcuni paesi dei Caraibi e dell’America Latina. Gli autori stimano che nel 2016 c’erano circa 124 milioni di bambini/e e adolescenti obesi/e nel mondo. La tendenza sembra essersi stabilizzata negli ultimi anni, sebbene ad alti livelli di prevalenza, in molti paesi ad alto reddito, mentre l’aumento di prevalenza ha subito un’accelerazione nello stesso periodo in molti paesi a medio e basso reddito, e soprattutto in Asia.

La tendenza all’aumento dell’obesità, soprattutto se espressa in numeri assoluti, fa paura. Cosa si può fare per controllarla? La risposta a questa domanda non rientrava tra gli obiettivi dello studio, ma nell’introduzione e nella discussione gli autori accennano ad alcune strategie. Scrivono per esempio che “bambini e adolescenti sono più suscettibili degli adulti al marketing degli alimenti, il che rende la riduzione della loro esposizione ai cibi obesogenici necessaria se si vuole proteggerli dai conseguenti danni”. Aggiungono che la stabilizzazione della prevalenza in molti paesi ad alto reddito potrebbe essere dovuta, oltre a diversi tipi di interventi ed iniziative, ad una presa di coscienza del problema, con conseguenti cambiamenti nell’alimentazione e attività fisica dei bambini e degli adolescenti, nonostante una certa riluttanza a regolare il mercato e il marketing di cibi e bevande obesogeniche, per esempio con appositi incentivi o tasse. Con il risultato di un possibile aumento della distribuzione diseguale dell’obesità, visto che all’interno di questi paesi sono soprattutto le classi sociali privilegiate quelle che cambiano le proprie abitudini alimentari in assenza di incentivi e/o disincentivi. Se così fosse, le cose potrebbero andare molto peggio in termini di diseguaglianza tra paesi ricchi e paesi a medio e basso reddito, e soprattutto all’interno di questi ultimi.

É assai improbabile che si riesca a invertire la rotta, con un occhio all’equità, senza intervenire su produzione, marketing, incentivi e disincentivi degli alimenti industriali, soprattutto quelli noti negli ultimi anni come alimenti industriali ultra-processati. Un recente numero della rivista Public Health Nutrition è quasi tutto dedicato a questi alimenti. Carlos Monteiro, nell’articolo introduttivo della serie, mette in guardia contro l’aumento esponenziale del consumo di alimenti industrializzati ultra-processati nei paesi a medio e basso reddito, a scapito delle diete tradizionali, e contro le conseguenze di questo aumentato consumo in termini di sovrappeso e obesità.[6] Gli alimenti ultra-processati sono definiti come “formule industriali prodotte da sostanze derivate da cibi o sisntetizzate da altre fonti organiche. Generalmente contengono poco o nessun cibo integrale, sono pronti all’uso o ad essere riscaldati, e sono grassi, salati e privi o carenti di fibre, proteine, micronutrienti ed altre sostanze attive.” Tipici esempi sono dolci, snack dolci e salati, gelati, bevande zuccherate, patatine fritte, hamburger, hot dogs, bastoncini di pesce o pollo, piatti pronti surgelati, etc. Anche le formule infantili a base di derivati di latte o soia ricadono in questa categoria. Le altre tre categorie di alimenti, spiazzate dai cibi industriali ultra-processati, sono:

  1. i cibi non processati o minimamente processati, come l’acqua e i prodotti animali come appaiono in natura o con quel minimo di pulizia e processamento (seccaggio, salatura, fermentazione, refrigerazione, etc) che serve a conservarli quando non si consumano freschi.
  2. Gli ingredienti processati per uso culinario, come olio, burro, grassi, zucchero, sale e cibi derivanti dalla prima categoria come farine, conserve e pasta. Di solito non si consumano come tali, ma per ricette che fanno uso di alimenti del primo gruppo.
  3. Cibi processati come verdure e pesci in scatola, frutta sciroppata, formaggi e pane fresco, preparati di solito con pochi ingredienti delle prime due categorie. Possono essere consumati come tali o usati in combinazione con cibi delle altre due categorie.

Il mercato degli alimenti ultraprocessati è dominato da una manciata di multinazionali nota come Big Food.[7] Dagli anni ‘80 del secolo scorso, avvantaggiate da regole sempre più favorevoli al libero mercato, queste multinazionali hanno aumentato vertiginosamente il volume dei loro investimenti globali, dai 61 milioni di dollari del 1985 ai 1730 miliardi del 2015.[8] Ciò ha cambiato drasticamente i consumi alimentari dei paesi a medio e basso reddito, soprattutto tra i bambini e gli adolescenti. É il risultato di enormi investimenti in pubblicità (Coca Cola e Nestlè, per esempio, hanno speso nel 2014 6.21 miliardi di dollari a questo fine) e di una continua e sistematica azione di lobby con governi, organizzazioni internazionali, istituzioni nazionali e locali, associazioni professionali e di consumatori, e chi più ne ha più ne metta. Questa azione di lobby usa gli stessi metodi sperimentati con successo dapprima dall’industria del tabacco e poi da quella dei sostituti del latte materno:[9]

  1. manovre per dirottare le procedure politiche e legislative;
  2. esagerazione dell’importanza economica dell’industria;
  3. manipolazione dell’opinione pubblica per guadagnare in rispettabilità;
  4. creazione di sostegno ingannevole da parte di gruppi appositamente finanziati;
  5. intimidazione di governi e istituzioni, con minacce di denunce;
  6. screditamento di ricerca e ricercatori scientifici.

Quest’ultima azione non poteva mancare nei confronti del già citato Carlos Monteiro, professore di epidemiologia della nutrizione e della salute alla scuola di salute pubblica dell’università di San Paolo, Brasile, e padre di tutta la ricerca sugli alimenti industriali ultra-processati. A un congresso internazionale di nutrizione tenutosi a Buenos Aires nell’ottobre del 2017, la presidentessa dello stesso, basandosi su un articolo di Michael Gibney, dell’università di Dublino, ha accusato Carlos Monteiro di irresponsabilità: “La comunità scientifica mondiale questiona il fondamento scientifico e i benefici di NOVA [la classificazione degli alimenti nelle quattro categorie riportata sopra; ndr], che implica inoltre un’ingiustificata demonizzazione degli alimenti processati e il ruolo storico cruciale giocato dalla scienza e dalla tecnologia degli alimenti”.[10] Sorvolando sul fatto che Monteiro non ha mai “demonizzato” i cibi processati, caso mai quelli ultra-processati, e dimenticandosi di dire che Michael Gibney siede nei comitati scientifici di Nestlè e di Cereal Partners Worldwide.[11] E che l’American Journal of Clinical Nutrition, che pubblica l’articolo di Gibney, è l’organo ufficiale dell’American Society for Nutrition, che conta tra i suoi 28 partners Coca Cola, Kellogg, Pepsi, Nestlé, Monsanto, etc.

E invece c’è ormai una sufficiente letteratura per poter affermare che l’aumento del consumo di cibi industriali ultra-processati è associato a un aumento dell’obesità in adulti e bambini e ad un aumento del rischio di malattie non trasmissibili legate alla dieta.[12,13] Le istituzioni di salute pubblica dovrebbero quindi raccomandare di diminuire il consumo di questi cibi a favore del consumo di quelli delle altre tre categorie, e soprattutto delle prime due. Ma non credo che sia possibile mettere in pratica questa raccomandazione a livello globale, e con un occhio all’equità, senza una regolamentazione della produzione e del marketing degli alimenti ultra-processati e senza incentivi e disincentivi a favore dei cibi più sani e contro quelli malsani. Questa regolamentazione dipende chiaramente e solo dalla volontà politica di metterla in atto, quando salute e nutrizione saranno considerate più importanti del mercato e dei profitti.

 

Adriano Cattaneo, epidemiologo, Trieste

Bibliografi

  1. Brady Ng. Obesity: the big, fat problem with Chinese cities. The Guardian, 09.01.2017
  2. Global Panel on Agriculture and Food Systems for Nutrition. Food systems and diets: facing the challenges of the 21st century[PDF: 5 Mb]. London, Global Panel, 2016.
  3. NCD Risk Factor Collaboration (NCD-RisC). Worldwide trends in body-mass index, underweight, overweight, and obesity from 1975 to 2016: a pooled analysis of 2416 population-based measurement studies in 128.9 million children, adolescents, and adults. Lancet 2017;390:2627-42
  4. NCD Risk Factor Collaboration (NCD-RisC)
  5. WHO: Growth reference data for 5-19 years
  6. Monteiro CA, Cannon G, Moubarac JC et al. The UN Decade of Nutrition, the NOVA food classification and the trouble with ultra-processing. Public Health Nutr 2018;21:5-17
  7. Stuckler D, Nestle M. Big food, food systems, and global health. PLoS Med 2012;9:6
  8. Organisation for Economic Co-operation and Development. Foreign Direct Investment (FDI) Statistics: OECD Data, Analysis and Forecasts. Paris, OECD, 2016
  9. Granheim Ionata S, Engelhardt K, Rundall P, et al. Interference in public health policy: examples of how the baby food industry uses tobacco industry tactics. World Nutrition 2017;8(2)
  10. Perez J. Big Food targets Brazilian researcher. net, 19.12.2017
  11. Gibney MJ, Forde CG, Mullally D, Gibney ER. Ultra-processed foods in human health: a critical appraisal. Am J Clin Nutr 2017;106:1-8
  12. Santos Costa C, Del-Ponte B, Formoso Assunção MC, Silva Santos I. Consumption of ultra-processed foods and body fat during childhood and adolescence: a systematic review. Public Health Nutr 2018;21:148-59
  13. Monteiro CA, Moubarac JC, Bertazzi Levy R, et al. Household availability of ultra-processed foods and obesity in nineteen European countries. Public Health Nutr 2018;21:18-26

 

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FONTE: http://www.saluteinternazionale.info/2018/01/questo-grasso-grasso-mondo/

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