È ciò che accade nell’epoca presente, soprattutto intorno a due settori nevralgici del vivere collettivo: il lavoro e l’abitazione. Ambedue, per essere analizzati efficacemente, suggeriscono l’elezione di un quadro concettuale di riferimento e di un contesto ben specifico. È evidente come l’attuale restringimento del perimetro di azione del pubblico – comune a tutti i Paesi a capitalismo avanzato – si associ alla responsabilizzazione di players individuali e collettivi, che localizzano la loro azione nella città, la quale più di altri ambienti vive la contraddizione tra l’arrembaggio del mercato – ormai esteso a ogni ambito della vita sociale – e l’attivazione di pratiche collettive volte a migliorare le con-dizioni materiali e immateriali dell’esistenza degli individui.
Quest’ultima attitudine alimenta la categoria dell’innovazione sociale urbana ed è assurta ormai ad aspetto ineliminabile della governance degli enti locali, dando ragione all’impegnativa definizione che la descrive: innovazione nei servizi e al contempo nelle modalità di relazione tra gli abitanti della città, tramite una promozione dell’attivazione e della partecipazione dei cittadini/destinatari. Il terzo millennio delle economie più sviluppate struttura silenziosamente un nuovo welfare urbano, il cui perno non è più rappresentato dal progetto di integrazione, quantomeno minimale, delle masse di subalterni a cui la vita di periferia nega anche un’economia di sussistenza, ma dalla fiducia nella buona volontà e nelle capacità della società civile, chiamata a riequilibrare, almeno parzialmente, l’inedita latitanza dello Stato e a proporre servizi a costi calmierati.
È il modello declaring neoliberalism, che viene incontro alla crisi fiscale delle amministrazioni locali e, in fondo, alla deideologizzazione degli stessi amministratori, ridotti a contabili condominiali, vieppiù privi di un progetto di organizzazione della società. Da qui il favore nei confronti dell’innovazione sociale urbana, che offre il valore aggiunto di una nuova politicizzazione collettiva, per quanto in una felice confusione – lo straniamento di cui sopra – che mischia istituzionale e non-istituzionale, top-down e bottom-up, persino destra e sinistra.
Cosa rimane all’attore pubblico, nella riconfigurazione appena descritta? Il ruolo di stimolo e coordinamento dell’empowerment della società civile e, almeno nominalmente, il monopolio dell’ordine pubblico, per quanto anche quest’ultimo paia adeguarsi alla nouvelle vaguedell’orizzontalismo: ecco che avremo, di conseguenza, modalità di controllo più sofisticate e subdole, anch’esse costruite secondo lo stampo comunitario (si pensi alle varie forme con cui l’autorità incentiva la “delazione sociale diffusa”).
Un altro rischio si pone all’orizzonte della nuova governance della città: la sovrarappresentazione dei bisogni e degli interessi delle fasce più avvantaggiate della popolazione urbana, le quali, maggiormente dotate di risorse economiche, relazionali e sociali, più facilmente saranno in grado di attivarsi e di attivare altri players urbani, tra cui lo stesso attore pubblico. Se quest’ultimo diventa un mero partner cofinanziatore, facilmente il welfare mix che scaturisce dalla nuova fase amministrativa andrà a premiare gruppi partecipativi di cittadini, pronti all’azione sociale diretta, invece che sacche di nuova o consolidata vulnerabilità urbana.
A monte, il neoliberismo territorializzato nella città difficilmente sarà intaccato da pratiche autonome o paraistituzionali, agenti sempre nell’alveo della compatibilità di sistema. I casi-studio analizzati riguardano le esperienze di cohousing – con un occhio agli esempi dell’Europa continentale, maggiormente strutturati in tal senso – e l’innovazione sociale legata ai coworking e ai FabLab, dove l’affitto di postazioni con connessione Internet e di sale per riunioni è solo il “pretesto” per sviluppare pratiche di condivisione e di solidarietà, tali da rompere –almeno negli auspici dei soci e dei partecipanti – i meccanismi di estrema competitività e di individualizzazione tipici del lavoro precario.
Anche in questo caso, l’approccio utilizzato suggerisce di analizzare criticamente l’effettiva persistenza della spinta innovativa dal basso, la stessa che sembra affievolirsi nel momento in cui catene globali di coworking (è il caso di WeWork) si caratterizzano sempre più come vere e proprie “multinazionali degli spazi condivisi di lavoro”, dunque totalmente estranee all’assetto valoriale proprio del movimento originario. Se la città globale è il luogo deputato del vivere sociale, nell’epoca tardo-moderna, i nuovi modelli di welfare urbano rappresentano il nodo gordiano dei rapporti di cittadinanza dentro lo Stato animato da “passioni fredde”.
L’accento sulla condivisione, sulla collaborazione, sul comune scompagina quei consolidati bastioni – “pubblico” e “privato” – che a lungo si sono fronteggiati e produce esperienze innovative, capaci di tenere il passo dei miglioramenti tecnologici e del cambiamento nei tempi di vita. Capire se queste vadano sempre più nella direzione di una “città solidale” oppure nella spirale di una “città duale” costituisce, per le scienze sociali, la sfida odierna.
Gli Autori: Luca Alteri è docente a contratto di Sociologia del turismo presso la Sapienza Università di Roma; Adriano Cirulli è assegnista di ricerca presso il Dipartimento di Scienze sociali ed economiche della Sapienza Università di Roma; Luca Raffini è assegnista di ricerca presso il Dipartimento di Scienze politiche dell’Università di Genova
Il testo è la sintesi dell’articolo pubblicato nella sezione “Tema” del n. 1/2019 della Rivista delle Politiche Sociali.
Fonte: RASSEGNA SINDACALE