Carola Rackete, la comandante della Sea Watch arrestata quattro giorni fa dalla guardia di finanza nella (ritenuta) flagranza dei reati di resistenza e violenza contro una nave da guerra nazionale e di resistenza a pubblico ufficiale è libera!
Il giudice per le indagini preliminari di Agrigento non solo non le ha applicato alcuna misura cautelare ma non ha convalidato l’arresto, affermando che fin dall’inizio non c’erano i presupposti per effettuarlo. Secondo quanto riportano in queste ore le agenzie, il gip ha ritenuto che: a) il primo reato non sussiste perché, a prescindere da ogni altra circostanza, la motovedetta della Guardia di Finanza che ha cercato di impedire l’ingresso della Sea Watch nel porto di Lampedusa è una nave militare ma non “da guerra” (come evidente anche a un profano e come sostenuto nell’immediatezza da un tecnico come Gregorio De Falco, ex comandante della Capitaneria di porto di Livorno); b) il reato di resistenza a pubblico ufficiale è scriminato (cioè non punibile) perché la comandante della Sea Watch ha agito in adempimento del dovere di portare in salvo dei naufraghi; c) il Decreto sicurezza bis non è applicabile nel caso specifico in quanto riferibile solo alle condotte degli scafisti e non anche a quelle dei soccorritori; d) la scelta della comandante Rackete di dirigersi nel porto di Lampedusa non è stata una forzatura ma una necessità imposta dalla normativa internazionale non potendo i porti più prossimi di Libia e Tunisia essere considerati “sicuri”.
Tre giorni fa ho sottolineato dalle pagine del blog Volere la Luna l’importanza della partita che si giocava, con il giudizio di convalida, sul piano istituzionale: una partita non tra i giudici e la politica ma tra il diritto e la prepotenza. E non ho mancato di esprimere i miei dubbi sull’esito della partita, resa ancor più incerta e difficile dalle pressioni durissime e dalle vere e proprie intimidazioni a cui erano sottoposti dal Governo e da pezzi dei media i magistrati di Agrigento. La decisione di oggi dimostra che il gip di Agrigento non si è lasciato intimidire e ha saputo inverare il modello di giudice disegnato da Luigi Ferrajoli, il massimo teorico italiano del garantismo, allorché ha scritto che in uno Stato di diritto “deve poter esserci un giudice indipendente che interviene a riparare i torti subiti, a tutelare il singolo anche se la maggior parte o persino la totalità degli altri si schierano contro di lui, ad assolvere in mancanza di prove quando l’opinione comune vorrebbe la condanna o a condannare in presenza di prove quando la medesima opinione vorrebbe l’assoluzione”.
È un bel segnale per la magistratura, particolarmente importante in un momento in cui la sua credibilità è esposta a colpi assai duri dai traffici vergognosi di altri magistrati con settori della politica. Il gip di Agrigento sarà sottoposto – è facile prevederlo – a un fuoco di fila di attacchi e insulti, anche sul piano personale. A lei – e a tutti noi – ricordo quel che scrisse Piero Calamandrei di un giudice fiorentino che “qualcuno, nei primi tempi del fascismo, chiamava il pretore rosso: e non era in realtà né rosso né bigio: era soltanto una coscienza tranquillamente fiera, non disposta a rinnegare la giustizia per fare la volontà degli squadristi”: Aurelio Sansoni era semplicemente un giudice giusto: per questo lo chiamavano rosso (perché sempre, tra le tante sofferenze che attendono il giudice giusto, vi è anche quella di sentirsi accusare, quando non è disposto a servire una fazione, di essere al servizio della fazione contraria)”.
A fianco della bella pagina per la giustizia ce n’è una di segno opposto scritta da chi, oggi, governa il Paese. Il vicepresidente del Consiglio e ministro dell’Interno Salvini, evidentemente infastidito dal richiamo alle regole, è andato, ancor più del solito, sopra le righe, nel silenzio complice dei suoi alleati di governo: “Non ho parole. Cosa bisogna fare per finire in galera in Italia? Mi vergogno di chi permette che in questo Paese arriva il primo delinquente dall’estero e disobbedisce alle leggi. Sono arrabbiato e indignato, lo faccio a nome dei militari italiani che ogni giorno rischiano la vita e meritano rispetto, non sentenze vergognose che liberano i delinquenti”. E non si è limitato a queste serene considerazioni e all’ormai consueto ritornello secondo cui le decisioni a lui sgradite sono “sentenze politiche” con il corollario: “Si candidi signor giudice e cambierà le leggi, ma intanto le applichi senza interpretarle a vantaggio di chissà chi”. A ciò ha aggiunto l’impegno per una riforma della giustizia: “Questa non è la giustizia che serve a un Paese che vuole crescere. È urgente la riforma della giustizia, cambiare i criteri di assunzione, selezione e promozione di chi amministra la giustizia in Italia”.
Per Salvini – e i suoi alleati – il criterio di valutazione delle sentenze e dei provvedimenti giudiziari non è la conformità alle regole ma l’utilità politica (come si è visto in occasione degli attacchi alla magistratura genovese per le sentenze relative alla sottrazione dei 49 milioni da parte della Lega). Non è un atteggiamento occasionale ma un metodo che sta nel DNA della Lega sin da quando, nei primi anni Novanta, l’allora segretario, Umberto Bossi, dopo avere appoggiato a dismisura le indagini di Mani pulite, si mise a discettare sul “costo delle pallottole” destinate ai magistrati quando le indagini lambirono la sua parte politica. E tutto questo nel contesto del progetto autoritario e illiberale definito nel marzo 1994 dall’ideologo del partito, Gianfranco Miglio, secondo cui “è sbagliato dire che una Costituzione deve essere voluta da tutto il popolo. Una Costituzione è un patto che i vincitori impongono ai vinti. Qual è il mio sogno? Lega e Forza Italia raggiungono la metà più uno. Metà degli italiani fanno la Costituzione anche per l’altra metà. Poi si tratta di mantenere l’ordine nelle piazze”.
La vicenda di Carola Rackete ci aiuta a mettere a fuoco anche questo.
fonte: GRUPPO ABELE