La guerra alla fame passa per gli orti. di Guglielmo Pepe

A New York nei giorni scorsi è stato presentato il rapporto dell’Onu sullo Stato della Sicurezza Alimentare e della Nutrizione nel Mondo (SOFI), e pochissimi media, almeno in Italia, hanno prestato attenzione ai contenuti. Cosa alquanto bizzarra, perché si parla molto di immigrazione nel nostro Paese, e però quando i problemi che influiscono sugli esodi di massa da paesi non sviluppati diventano chiari, vengono ignorati. Perché in questo documento (frutto della collaborazione di FAO, IFAD, OMS, UNICEF e WFP), emergono due aspetti di enorme impatto economico, sociale, politico, culturale: aumenta il numero di persone che soffrono di fame e aumenta anche il numero degli obesi.

Da tempo questa è una delle nostre più grandi contraddizioni: c’è chi mangia e consuma troppo, e chi muore invece di fame e consuma poco e niente. L’aspetto nuovo, e preoccupante, è che gli affamati che negli ultimi decenni stavano diminuendo, dal 2015 sono di nuovo in crescita: l’anno scorso oltre 2 miliardi di persone non hanno avuto accesso regolare a cibo sicuro, nutriente e sufficiente, e più di 820 milioni di persone hanno letteralmente sofferto la fame. E il paese più colpito dalla fame è l’Africa, anche se l’8 per cento delle popolazioni del Nord America e dell’Europa ha le stesse problematiche. Stando così le cose l’obiettivo Fame Zero invece di avvicinarsi – come sembrava fino a quattro anni fa – si allontana.

La situazione è seria, soprattutto perché le cause di questa povertà alimentare – economia in rallentamento, guerre, cambiamenti climatici – non appaiono risolvibili se non in tempi lunghi. Il peggioramento costante segnalato dagli ultimi rapporti, evidenzia un processo molto grave. E secondo Carlo Petrini, presidente internazionale di Slow Food e ambasciatore del programma Fame Zero per la FAO, «…sembra incredibile che nel 2019 l’homo sapiens sia ancora alla prese con la lotta contro la fame, e ancor più incredibile è constatare che stiamo perdendo! Slow Food ormai da molti anni è impegnata in questa lotta: il quadro che emerge oggi dalla nuova edizione del rapporto ONU ci chiama a un ulteriore impegno, con forza e urgenza. Il rapporto ci dice anche che il problema non è la quantità di cibo globalmente a disposizione, come sostengono le multinazionali dell’agro-industria, ma la sua disponibilità per chi è in condizioni economiche e sociali svantaggiate. È un tema di diritti negati e non di incremento della produzione. Servono quindi politiche coraggiose dei governi di tutto il Pianeta, per il contrasto alla povertà, alle disuguaglianze e all’emarginazione, che adottino e promuovano un modello di produzione alimentare agro-ecologico, inclusivo e socialmente equo».

Viene da sorridere amaramente se, rispetto a quello che dice Petrini, pensiamo all’Italia e all’Europa, dove si è incapaci perfino di salvare la vita a poche decine di migranti nei nostri mari; e dove se sono le ONG a salvarli, queste vengono messe sotto accusa e mandate a processo. Alcuni governi, o meglio alcuni ministri, sia nel nostro Paese che altrove, quando sentono parlare di sostegno ai poveretti che fuggono da guerre, fame, miseria, invece di intervenire chiamano la forza pubblica.

Forse per questo è importante il ruolo svolto dalle associazioni. In particolare per l’Africa dove, secondo Edie Mukiibi, agronomo ugandese e membro del Comitato Esecutivo Internazionale di Slow Food «I 3207 orti agroecologici che Slow Food ha creato in 35 Paesi africani costituiscono oggi un piccolo ma significativo contributo al problema della malnutrizione, un modello positivo di partecipazione e di organizzazione dal basso. E soprattutto un modello facilmente replicabile: noi, con le nostre forze, (relativamente scarse rispetto a quelle delle istituzioni e dei governi) siamo riusciti a realizzare oltre 3 mila orti. E ognuno di questi orti coinvolge circa 120 persone in maniera continuativa, contribuendo in molti casi a evitare che questi individui vadano a far lievitare le già drammatiche cifre che oggi l’ONU ci ha consegnato».

Come si legge in un comunicato dell’associazione, con Slow Food in Africa sono stati realizzati finora 1585 progetti nelle scuole e 1622 progetti nelle comunità, per un totale di 3207 orti attivi. Essi coinvolgono circa 305.000 studenti (la metà sono donne) e oltre 40.000 adulti (in questo caso le donne sono il 72%). Questi orti sono un chiaro segno che gli africani sono impegnati ad affrontare in prima persona i problemi di fame e malnutrizione. Come spiega Edie Mukiibi «Gli orti Slow Food non sono solo fonti di cibo per le comunità, ma anche strumenti educativi e culturali per tutti i soggetti coinvolti. Aumentano la quantità e la varietà di cibo fresco disponibile per l’autoconsumo, diminuendo la dipendenza dal mercato per i semi e le integrazioni della dieta…».

Sarei fin troppo ottimista se pensassi che la strada indicata da Slow Food sulla dura terra e dalle ONG nel Mar Mediterraneo, rappresenta la soluzione dei problemi che affliggono in primo luogo il continente africano. Ma in questi casi bisogna essere anche molto pratici e concreti: se gli orti danno da mangiare e creano ambienti migliori per migliaia di persone, è necessario sostenere queste iniziative, condividerle. Senza aspettare i governi che, in molti casi, non hanno interesse alcuno nei confronti della sofferenza che riguarda e coinvolge gran parte del nostro Pianeta.

fonte: NATIONAL GEOGRAPHIC ITALIA

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