Salute mentale: carcere e post OPG, dopo la sentenza della Corte Costituzionale. di Pietro Pellegrini

La sentenza della Corte Costituzionale 99/2019 relativa alle persone detenute nelle quale sia sopravvenuta una grave infermità psichica ha importanti conseguenze per i servizi di salute mentale. Infatti se il diritto alla salute non viene assicurato in carcere, nemmeno nelle apposite Articolazioni per la Salute Mentale, il Magistrato di Sorveglianza può disporre la detenzione domiciliare nella propria abitazione o in altro luogo di privata dimora, anche in luogo pubblico di cura, assistenza o accoglienza. In questa eventualità risulta essenziale la definizione dei criteri per la definizione della grave infermità psichica e per la sua valutazione mediante una procedura nonché delle modalità gestionali, delle ricadute operative sui dipartimenti di salute mentale e sulla responsabilità professionali.

La persona condannata previa certificazione del Dipartimento di salute mentale di grave infermità psichica e predisposizione di programma terapeutico e di assistenza psichiatrica può essere affidato in prova tramite un’ordinanza che indica anche le “prescrizioni” che la persona s’impegna a seguire. La definizione della “grave infermità psichica” e delle relazioni fra “prescrizioni” e “programma di cura” risulta essenziale per l’applicazione della legge e la definizione delle competenze della giustizia e della sanità. (Parole chiave: Grave infermità mentale, pericolosità sociale, sanità negli istituti penitenziari, misure alternative, programma terapeutico)

Introduzione

La recente sentenza Corte Costituzionale n. 99 del 19 aprile 2019 (di seguito Sentenza) ha importanti implicazioni per i servizi di salute mentale. Mentre i decreti attuativi della legge 103/2017, espressione del mutato orientamento politico del nuovo governo, avevano sostanzialmente rimosso il tema dell’assistenza psichiatrica negli Istituti di Pena, la citata sentenza riapre un iter volto ad affermare la pienezza del diritto alla salute dei soggetti detenuti con infermità mentale. Se questo è, almeno per chi scrive, sicuramente positivo, specie se sarà collocato in un programma di miglioramento della qualità, efficacia e umanizzazione della pena, è indubbio che l’attuazione della Sentenza apre una serie di problemi e riflessioni. In particolare occorre giungere alla definizione di percorsi e criteri applicativi da un lato e vedere come i Dipartimenti di Salute Mentale possono fare fronte ai nuovi compiti, in termini di risorse, strutture, competenze e responsabilità.

Scopo di questo contributo è quello di provare a formulare ipotesi applicative.

La Sentenza è riferita ai soggetti detenuti, quindi condannati e pertanto ritenuti imputabili al momento del fatto reato, nei quali l’infermità psichica è insorta nel corso della detenzione (art. 148 c.p.). Quindi non riguarda i soggetti non imputabili prosciolti ai quali, in relazione alla sussistenza della pericolosità sociale sia applicata una misura di sicurezza secondo quanto disposto dalle leggi 9/2012 e 81/2104.

La Sentenza della Corte Costituzionale n. 99/2019

I punti di principale interesse per lo psichiatra sono:

– il riconoscimento che l’assistenza psichiatrica fa riferimento all’art 32 della Costituzione e alla legge 180/1978

– le REMS non sono succedute nelle funzioni in precedenza svolte dagli OPG in base all’art. 148 cod. pen.

– “il processo di superamento degli OPG è stato accompagnato dalla realizzazione, all’interno degli istituti penitenziari ordinari, di apposite sezioni denominate “articolazioni per la tutela della salute mentale” e dedicate all’accoglienza dei detenuti appartenenti a specifiche categorie giuridiche in precedenza ospitati negli OPG per le necessarie cure e assistenza psichiatriche” (Sentenza).

– “dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 47-ter, comma 1-ter, della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà), nella parte in cui non prevede che, nell’ipotesi di grave infermità psichica sopravvenuta, il tribunale di sorveglianza possa disporre l’applicazione al condannato della detenzione domiciliare anche in deroga ai limiti di cui al comma 1 del medesimo art. 47-ter.”

– la detenzione domiciliare potrà quindi essere applicata anche al detenuto con grave infermità psichica sopravvenuta e potrà “svolgersi, oltre che «nella propria abitazione o in altro luogo di privata dimora», anche in «luogo pubblico di cura, assistenza o accoglienza», come prevede l’art. 284 cod. proc. pen. e come ribadisce anche il comma 1 del medesimo art. 47-ter ordin. penit.” Le pene potranno essere anche superiori ai 4 anni (per criteri “umanitari”).

– “la detenzione domiciliare costituisce «“non una misura alternativa alla pena”, ma una pena “alternativa alla detenzione o, se si vuole, una modalità di esecuzione della pena”», sottolineando come essa sia sempre accompagnata da «prescrizioni limitative della libertà, sotto la vigilanza del magistrato di sorveglianza e con l’intervento del servizio sociale» (ordinanza n. 327 del 1989).

-“La varietà dei quadri clinici e delle condizioni sociali e familiari dei detenuti affetti da malattie psichiche esige da parte del giudice un’attenta valutazione caso per caso e momento per momento della singola situazione. A lui spetterà verificare, anche in base alle strutture e ai servizi di cura offerti all’interno del carcere, alle esigenze di salvaguardia degli altri detenuti e di tutto il personale che opera negli istituti penitenziari, se il condannato affetto da grave malattia psichica sia in condizioni di rimanere in carcere o debba essere destinato a un luogo esterno, ai sensi dell’art. 47-ter, comma 1-ter, ordin. penit., fermo restando che ciò non può accadere se il giudice ritiene prevalenti, nel singolo caso, le esigenze della sicurezza pubblica”.

 Quali conseguenze per i DSM

La sentenza 99/2019 della Corte Costituzionale opera un chiarimento rispetto alla legge 103/2017 comma 16[1] in riferimento alla funzione delle REMS destinate ai soli soggetti con misura di sicurezza mentre rilancia seppure indirettamente il tema dell’assistenza psichiatrica negli Istituti di Pena del tutto omesso dai Decreti legislativi 2 ottobre 2018, n. 123 e 124 (G.U. 26 ottobre 2018) nei quali si è persino cancellato il riferimento allo psichiatra nell’art. 11 dell’O.P., né sono state accolte le proposte avanzate dalla Commissione Pelissero sulle attività per la  prevenzione dei suicidi e sulle funzioni delle Articolazioni per la tutela della Salute Mentale. Una linea che, associata ad una riduzione della possibilità di accedere a misure alternative alla detenzione, ha rimosso in modo del tutto ingiustificato il tema della salute mentale come segnalato da studiosi del diritto[2] e purtroppo dai dati sui suicidi e il disagio di detenuti e polizia penitenziaria.[3]

La sentenza della Corte Costituzionale affronta quindi una serie di questioni e pare poter indicare le via possibile per risolvere diversi problemi ammesso che sul piano giuridico, ambito che esula dalle competenze dello psichiatra, non emergano altre posizioni interpretative e soprattutto novelle legislative.

Infatti, vigente il “doppio binario”, le persone prosciolte per infermità e pericolosità sociale sono sottoposte alla misura di sicurezza che in base alla legge 81/2014, in primis è la libertà vigilata e solo residualmente quella detentiva. Con un lucido e coerente ragionamento la Sentenza prevede che le REMS siano dedicate esclusivamente alle misure di sicurezza detentive definitive e provvisorie, tema quest’ultimo che non viene affrontato ma meriterebbe di essere adeguatamente definito.

La persona detenuta nella quale sia presente o sia sopravvenuta l’infermità mentale viene assistita negli Istituti di Pena sia tramite i servizi lì assicurati dai DSM sia attraverso le Articolazioni per la Tutela della Salute Mentale. Qualora l’infermità, anche sopravvenuta nel corso della detenzione, sia “grave” può essere applicata una misura alternativa alla detenzione in una sede che può essere la casa, un’altra dimora, o un luogo pubblico di cura, assistenza o accoglienza.

Sta al giudice valutare quale provvedimento adottare in relazione anche alle esigenze di sicurezza pubblica che nel caso siano prevalenti possono risultare ostative alla concessione della misura alternativa. Secondo la Corte “la detenzione domiciliare “umanitaria” offre al giudice una possibilità da attivare quando le condizioni lo consentano, sulla base di una complessiva valutazione a cui non può rimanere estraneo «il giudizio di pericolosità ostativa a trattamenti extra-murari, opportunamente rinnovato e attualizzato in parallelo alla evoluzione della condizione sanitaria e personale del detenuto» (Corte di cassazione, sezione prima penale, sentenza 28 novembre 2018-4 marzo 2019, n. 9410).”  Infatti secondo la Sentenza,” occorre, anzi, considerare che soprattutto le patologie psichiche possono aggravarsi e acutizzarsi proprio per la reclusione: la sofferenza che la condizione carceraria inevitabilmente impone di per sé a tutti i detenuti si acuisce e si amplifica nei confronti delle persone malate, sì da determinare, nei casi estremi, una vera e propria incompatibilità tra carcere e disturbo mentale.”  A fronte di questo la Sentenza si esprime nel seguente modo:

“Se è vero che la tutela della salute mentale dei detenuti richiede interventi complessi e integrati, che muovano anzitutto da un potenziamento delle strutture sanitarie in carcere, è vero altresì che occorre che l’ordinamento preveda anche percorsi terapeutici esterni, almeno per i casi di accertata incompatibilità con l’ambiente carcerario. Per questi casi gravi, l’ordinamento deve prevedere misure alternative alla detenzione carceraria, che il giudice possa disporre caso per caso, momento per momento, modulando il percorso penitenziario tenendo conto e della tutela della salute dei malati psichici e della pericolosità del condannato, di modo che non siano sacrificate le esigenze della sicurezza collettiva.” Si realizza così un bilanciamento tra la condizione del reo e le esigenze di sicurezza sociale.

Quali percorsi?

Per i malati mentali risultati imputabili la pena deve essere scontata in carcere e al contempo devono essere assicurate cure adeguate. Tuttavia la “Corte ritiene in contrasto con i principi costituzionali di cui agli artt. 2, 3, 27, terzo comma, 32 e 117, primo comma, Cost. l’assenza di ogni alternativa al carcere, che impedisce al giudice di disporre che la pena sia eseguita fuori dagli istituti di detenzione, anche qualora, a seguito di tutti i necessari accertamenti medici, sia stata riscontrata una malattia mentale che provochi una sofferenza talmente grave che, cumulata con l’ordinaria afflittività del carcere, dia luogo a un supplemento di pena contrario al senso di umanità.” Una condizione di doppia vulnerabilità contraria al senso di umanità.

A questo punto per rendere operative le alternative alla detenzione occorrono soluzioni concrete e a tal fine, a mio parere, si può utilmente fare riferimento alle proposte avanzate dal Tavolo 10 (presidente Maisto) degli Stati Generali per l’Esecuzione della Pena e poi sostanzialmente riprese dalla Commissione Pelissero (art.  47 septies) le quali indicavano un percorso nel qualel’interessato può chiedere in ogni momento di essere affidato in prova ai sensi delle disposizioni di questo articolo per proseguire o intraprendere un programma terapeutico e di assistenza psichiatrica in libertà concordato con il dipartimento di salute mentale dell’azienda unità sanitaria locale o con una struttura privata accreditata.

  1. All’istanza è allegata, a pena di inammissibilità, certificazione rilasciata dal dipartimento di salute mentale attestante le condizioni di salute del soggetto e il programma terapeutico e di assistenza psichiatrica.
  2. Se l’ordine di carcerazione è stato eseguito, la domanda è presentata al magistrato di sorveglianza il quale, se ritiene che sussistano i presupposti per il suo accoglimento e il grave pregiudizio al percorso di cura derivante dal protrarsi della detenzione, e sempre che non vi sia pericolo di fuga, dispone con ordinanza la liberazione del condannato e l’applicazione provvisoria dell’affidamento in prova. L’ordinanza conserva efficacia fino alla decisione del tribunale di sorveglianza cui il magistrato trasmette immediatamente gli atti. Il tribunale decide entro sessanta giorni.
  3. Il tribunale accoglie l’istanza se ritiene che il programma, unitamente alle altre prescrizioni, contribuisca alla cura e al recupero del condannato e assicuri la prevenzione del pericolo che commetta altri reati. All’atto dell’affidamento in prova è redatto verbale in cui sono indicate le modalità del programma e le prescrizioni.
  4. Tra le prescrizioni impartite sono comprese quelle che determinano le modalità di esecuzione del programma e quelle di cui all’articolo 47, comma 5, in quanto compatibili con la condizione di infermità psichica della persona e le sue esigenze di cura e assistenza. Sono altresì stabilite le prescrizioni e le forme di controllo per accertare che la persona inizi immediatamente o prosegua il programma terapeutico.
  5. L’esecuzione della pena si considera iniziata dalla data del verbale di affidamento; tuttavia qualora il programma terapeutico al momento della decisione risulti già positivamente in corso, il tribunale, tenuto conto della durata delle limitazioni alle quali l’interessato si è spontaneamente sottoposto e del suo comportamento, può determinare una diversa data di decorrenza dell’esecuzione più favorevole.
  6. Fermo restando l’obbligo dell’ufficio di esecuzione penale esterna, ai sensi dell’articolo 47, comma 10, il dipartimento di salute mentale riferisce periodicamente al magistrato di sorveglianza sul comportamento del soggetto.
  7. Qualora nel corso dell’affidamento disposto ai sensi del presente articolo l’interessato abbia positivamente terminato la parte terapeutica del programma, il magistrato di sorveglianza, previa rideterminazione delle prescrizioni, può disporne la prosecuzione ai fini del reinserimento sociale anche qualora la pena residua superi quella prevista per l’affidamento ordinario di cui all’articolo 47.”

Nell’ottica della parificazione delle gravi infermità fisiche e psichiche il percorso sopraindicato sembra convincente anche in relazione alla previsione di una forte responsabilizzazione della persona detenuta, seppure affetta da grave infermità mentale.

Quanto alla certificazione rilasciata dal dipartimento di salute mentale attestante le condizioni di salute del soggetto e al programma terapeutico e di assistenza psichiatrica andrebbe posta esplicitamente la necessità di una valutazione gruppale (di equipe), articolando almeno due livelli.

Uno espletato dai professionisti sanitari che operano negli Istituti di Pena ed un altro invece di direzione (UO Psichiatria forense, integrata da medici legali e con i servizi sociali) che si assuma la responsabilità delle valutazioni finali e delle proposte conseguenti al Magistrato.

Questo iter avrebbe il vantaggio di tutelare la relazione di cura sottraendo i professionisti più a contatto con i detenuti da possibili pressioni, minacce o possibili collusioni.

In alternativa o integrazione a questo percorso si può realizzare una netta separazione fra funzioni di cura e di valutazione prevedendo sempre un’attività terza di tipo peritale comunque raccordata con il DSM competente per territorio specie per l’effettuazione delle misure alternative.

Il punto qualificante dell’attuale impostazione dei servizi di salute mentale è il loro radicamento territoriale e quindi anche per il soggetto detenuto con grave infermità psichica deve di norma valere questo principio. Potranno esservi motivate eccezioni ad esempio in relazione alla sicurezza ambientale, ma è indispensabile che la persona abbia una residenza anagrafica reale che non sia quella del luogo di detenzione. Il Comune è il riferimento per tutti i supporti e realizzare i diritti di cittadinanza che non sono nelle competenze del DSM.

Risulta quindi essenziale la presa in cura congiunta, ciascuno per le proprie competenze, di Servizio Sociale e DSM, secondo lo spirito delle leggi 354/1975 e 180/1978, contrastando una tendenza lenta ma progressiva di sanitarizzazione del disagio.

La definizione dell’Equipe curante territoriale, sociale e sanitaria, è un passaggio decisivo sia per i rapporti con la persona, l’avvocato, la famiglia da un lato sia per i raccordi con UEPE (Ufficio Esecuzione Penale Esterna), Forza dell’Ordine, Magistratura dall’altro.

Il tema come accennato è poi di grande e attuale rilevanza per i soggetti privi di permesso di soggiorno, di documenti, senza fissa dimora.

La chiarezza metodologica è fondamentale per quanto attiene anche la gestione dei programmi, le eventuali violazioni, le responsabilità.

Detto questo del possibile percorso si apre poi il tema della definizione di merito della grave infermità psichica[4], delle modalità di accertamento, dei criteri per definire l’incompatibilità con la detenzione. Infine i principi e le modalità del DSM per realizzare l’attività negli istituti di pena o in individuare sedi dove possano essere realizzate le misure alternative.

La Sentenza prevede anche che il Magistrato debba tenere conto “della pericolosità del condannato, di modo che non siano sacrificate le esigenze della sicurezza collettiva”.

Compete certamente ai DSM effettuare una valutazione clinica che consideri i dati anamnestici e diagnosi categoriale, diagnosi funzionale, la consapevolezza e l’adesione dalle cure e l’esito di eventuali precedenti attività di cura alternative. In questo ambito particolare rilievo assume la valutazione del livello di psicopatia. Sono essenziali al programma anche gli interventi sugli assi classici della riabilitazione: abilità di base della persona, socialità-affettività, formazione-lavoro, habitat, reddito minimo, rete familiare e al sostegno sociale.

D’altra parte non si tratta di effettuare solo una valutazione della persona la Sentenza, raccogliendo gli orientamenti emersi nella medicina legale e nella criminologia, prevede di tenere conto anche delle “strutture e ai servizi di cura offerti all’interno del carcere, alle esigenze di salvaguardia degli altri detenuti e di tutto il personale che opera negli istituti penitenziari”.

In termini molto generali dovrebbero avere priorità nell’ammissione a misure alternative alla detenzione i soggetti che siano affetti da patologie di ambito psicotico (F20-29, F30-32 sec. ICD 10) con livello di funzionamento basso che in carcere rischiano di regredire pesantemente e di non avere le adeguate risposte terapeutiche e abilitative. Persone che possono apparire collaborative e non dare problemi comportamentali e che non abbiano già avuto misure/cure alternative o se attuate non abbiano avuto esiti sfavorevoli.

Inoltre, in ogni caso, andrebbe valutato il livello di psicopatia, antisocialità e aggressività con batterie di valutazione per le quali si rimanda a testi specifici.

I soggetti con Disturbi della Personalità ed altri (F60-69 sec. ICD10) sono di norma imputabili e traggono beneficio da programmi responsabilizzanti differenti da quelli attuati per i pazienti con disturbi psicotici. Nel caso i Disturbi della Personalità siano di elevata gravità, specie se con alta psicopatia, dovranno essere valutati in relazione alle possibilità progettuali evitando di confondere gravità e “gravosità”, disturbo mentale e soggetti “disturbanti” o intolleranti al regime di privazione della libertà e pertanto richiestivi, provocatori, manipolatori e di difficile gestione.

Su queste situazione un lavoro di concerto delle diverse istituzioni è necessario per predisporre programmi specifici che possono essere più efficaci della stessa detenzione ma anche di una misura alternativa, attuata magari in ambiti psichiatrici dai quali tali pazienti non solo non traggono benefici ma compromettono anche il percorso di cura di altri ospiti.

Una particolare attenzione va posta alla tutela della salute mentale della persona alla prima esperienza detentiva, e più in generale al disagio connesso alla privazione della libertà.

A questo proposito è significativa la circolare del 2 maggio 2019 del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria (DAP) avente come oggetto “Interventi urgenti in ordine all’acuirsi di problematiche in tema di sicurezza interna riconducibili al disagio psichico” nella quale si sottolinea l’aumento delle aggressioni al personale e delle risse tra gli stessi detenuti. E’ certamente un problema rilevante che secondo il DAP investe l’intero sistema organizzativo del carcere, divenuto il terminale di problematiche sociali a fronte del quale appare fuorviante l’obiettivo di “prevenire quei gesti di violenza che trovano la loro radice nella sofferenza psichica.”

Una lettura che confondendo il disagio psicologico e sociale con la malattia mentale non aiuta a trovare le soluzioni adeguate. In parole più chiare il disagio non è disturbo, e quindi va risolto con altri interventi, ambientali, relazionali, sociali, trattamentali.

Chiamare alla collaborazione la sanità ed in particolare la psichiatria, senza una riflessione sulla normativa, sulle attività proposte, sulle opportunità lavorative e formative, sulle relazioni comprese quelle affettive e sessuali, rischia di riportare in auge una richiesta più che di cure adeguate quella di un’ancillare collaborazione ai fini gestionali di persone “disturbanti” e aggressive. Un mandato estraneo all’attuale impostazione dei DSM. In altre parole abbiamo bisogno di capire come si generano i fenomeni e su questi intervenire sapendo che sui fattori ambientali, trattamentali e sociali non può essere la psichiatria ad esercitare un’azione surrettizia.

In carcere le patologie psichiatriche gravi sono relativamente rare (meno dell’1%) e del tutto condivisibili sono le richieste di esperire le vie per la collocazioni alternative in attuazione della Sentenza. Questo però potrebbe non risolvere il problema la presenza di persone con disturbi gravi della personalità e uso di sostanze.

Per queste ultime il percorso alternativo esiste da tempo (legge 309/1990, art. 94) ma la via della cura, specie se punta all’astinenza, appare assai più difficile di un approccio di realistica  riduzione del danno.

Incompatibilità con la detenzione e possibilità di cura

Solitamente, rispetto alla detenzione si distingue una incompatibilità assoluta o relativa, temporanea o permanente.

Questo anche in relazione al disturbo che può essere acuto o avere un andamento molto protratto o cronico. Non solo ma la valutazione dovrebbe tenere conto delle possibilità di cura sia in termini tecnico-scientifici (relative alle indicazioni delle Linee Guida) sia relazione agli interventi terapeutici e abilitativi possibili sia negli Istituti di Pena sia all’esterno, sia nel sistema territoriale dei DSM. Va evitato ogni automatismo pensando ad esempio che l’incompatibilità con la detenzione significa compatibilità con la  collocazione in ambito sanitario ed ancora meno motivazione della persona alla cura.

Posto che ogni valutazione e programma di cura dovrà essere sempre altamente personalizzato, la sua effettiva realizzazione ha come premessa la definizione della residenza anagrafica e la collocazione in prossimità del DSM e servizi sociali competenti per territorio.

In termini molto generali dovrebbero avere priorità nell’ammissione a misure alternative alla detenzione i soggetti che siano affetti da patologie (in primis F20-29, F30-32 sec. ICD 10) con livello di funzionamento basso (ad es. inferiore a 40 alla Valutazione Globale del Funzionamento), livello di psicopatia medio-basso (Psicopathy Check List inferiore ad un determinato punteggio es. 25). Inoltre dovrà essere valutati la collaborazione, insight, ecc. tutti i fattori interni ed esterni previsti dal PTRI. E’ importante valutare anche se le persone  hanno già avuto misure/cure alternative e quali siano stati gli esiti sfavorevoli.

Ovviamente dovranno essere definiti oltre gli aspetti giudiziari ma anche le possibilità di attivare i percorsi formativi, lavorativi, di inclusione sociale. Questioni decisive specie nei programmi abilitativi e orientati alla recovery che superino la visione nichilistica della cronicità e della difettualità. L’esito a lungo termine dei disturbi mentali gravi si realizza secondo traiettorie non prevedibili e per altro influenzabili da una pluralità di fattori e non solo della mera terapia farmacologica che specie a lungo termine sembra dare risultati eterogenei e talora negativi.[5]

Per i DSM credo che il riferimento alla normativa sulle Dipendenze Patologiche art. 94 della legge 309/1990, sia appropriata. Questa infatti, prevede la possibilità di attivare misure alternative, su richiesta della persona e con certificazione del DSM. Quindi al DSM viene affidato un compito assai rilevante sia per la valutazione sia per la formulazione del programma. Un compito che richiede definizioni, metodologie e risorse anche per fare fronte alle comprensibili e inevitabili pressioni. Un programma che deve vedere un forte coinvolgimento ambientale.

Oltre alla valutazione e alla certificazione, qualora il soggetto sia ammesso alla misura alternativa, “fermo restando l’obbligo dell’UEPE, il DSM riferisce periodicamente al magistrato di sorveglianza sul comportamento del soggetto”. Un obbligo di riferire sul “comportamento” che va esplicitato nelle condizioni dei programmi di cura compito che potrebbe essere assunto da un’apposita articolazione (UO Psichiatria forense) del DSM.

E’ interesse comune che la persona, responsabilmente, si attenga alle prescrizioni e al programma di cura. Un difficile equilibrio e tuttavia a fronte di motivi di sicurezza il giudice può non concedere o revocare le misure alternative. Su questo vi è anche la possibilità che siano i DSM a chiederlo a fronte di casi difficili, ingestibili, che mettono in crisi.

Va previsto un possibile percorso per i soggetti senza residenza che rappresentano una quota significativa delle persone detenute. La risoluzione di alcuni problemi come la residenza, i documenti ecc. è essenziale per l’inclusione sociale. Su questo la Commissione Pelissero aveva dato indicazioni, delineate nel seguente modo: “ai fini dell’affidamento in prova, il condannato che non disponga di una propria abitazione o di altro luogo di privata dimora può accedere ad un luogo di cura, assistenza, accoglienza ovvero a un luogo di dimora sociale appositamente destinato all’esecuzione extracarceraria della pena”. Una formulazione che mettendo sullo stesso piano luogo di cura, accoglienza assistenza o dimora sociale evidenzia la logica giudiziaria ma visto dai sanitari si tratta di soluzioni molto diverse sia in relazioni ai significati che ai costi e per ciascuna persona va predisposta la collocazione più adeguata (compreso se vi sono le condizioni il rimpatrio).

Va certamente evitato che i DSM si trovino ad avere bloccati per lunghi periodi posti letto residenziali e ospedalieri per esigenze solo giudiziarie in assenza di bisogni sanitari. Vanno quindi previste adeguate risposte residenziali in misura limitata “dedicate” (rileggendo anche ruolo e dotazione delle REMS) ma anche utilizzando la rete ordinaria e strumenti quali il Budget di salute al fine di promuovere Programmi terapeutico-riabilitativi individualizzati per persone con misure giudiziarie. A questo proposito va affrontato esplicitamente il problema delle risorse per poter strutturare percorsi alternativi alla detenzione che se attuati con Budget di Salute possono avere un costo medio di 20 mila euro/anno mentre questo passa a circa il triplo se residenziale. Considerando circa 400 pz/anno l’impegno di spesa aggiuntivo è stimabile in circa 30 milioni di euro/anno.

Viene ribadita la collocazione in vicinanza della famiglia, l’individuazione dei servizi sociali di riferimento e la possibilità di avere i documenti (se vi sono i requisiti) tutti passi avanti nel tentativo di risolvere i problemi della residenza essenziali per l’inclusione sociale.

Nella definizione delle misure “si tiene conto di programmi terapeutici effettuati dopo la commissione del reato” e all’art 16 in caso di violazione prima della revoca si precisa che “la violazione deve essere incompatibile con la prosecuzione della misura”. Questo appare importante onde evitare automatismi e invita ad analizzare le condotte.

Complessivamente la Sentenza nel delineare il quadro giuridico può contribuire a migliorare la qualità delle attività sanitarie e dei diritti delle persone sottoposte a misure giudiziarie penali.

Verso un sistema di comunità, pattizio e riparativo

Un punto che va ripreso nelle pratiche era quello previsto dalla Proposta Pelissero all’art. 14, punto 6 comma 5 dove venivano precisati gli impegni della persona con la giustizia. Un punto chiave che pone le basi per il doppio patto fondato sulla chiarezza nelle competenze tra giustizia e psichiatria. Interessante il comma 7 per la giustizia riparativa.

All’atto dell’affidamento è redatto verbale in cui, tenuto conto delle possibilità di coinvolgimento socio-familiare e dell’esigenza di individualizzazione del trattamento, sono contenute le prescrizioni che il condannato dovrà osservare. Esse riguardano: i rapporti con l’ufficio di esecuzione penale esterna; i rapporti con altri soggetti pubblici o privati con finalità di cura e sostegno; l’indicazione di una dimora; le limitazioni alla libertà di locomozione, l’obbligo o il divieto di soggiornare in uno o più comuni o il divieto di frequentare determinati luoghi; lo svolgimento di attività lavorativa; il divieto di detenere armi, di svolgere attività o di intrattenere relazioni personali che possono portare al compimento di altri reati; l’adoperarsi, anche attraverso l’assunzione di specifici impegni, a elidere o attenuare le conseguenze del reato; l’adoperarsi in quanto possibile in favore della vittima ed adempiere agli obblighi di assistenza familiare; la prestazione di attività anche a titolo gratuito per l’esecuzione di progetti di pubblica utilità in favore della collettività, in modo da non pregiudicare le esigenze di lavoro, di studio, di famiglia e di salute dell’affidato.»;

Il patto che la persona condannata fa deve essere articolato in due parti: “Prescrizioni” e “programma di cura”. Il patto prevede sempre una forte responsabilizzazione della persona e per quanto attiene alle “prescrizioni” miranti alla prevenzione dei reati vede in primo luogo la giustizia mentre quello relativo al programma di cura il patto è con la sanità. Certamente i due ambiti, prescrizioni e programma di cura, hanno punti di contatto, comuni finalità ma si rifanno a letture, logiche, strumenti e percorsi diversi. Queste differenze sono elementi di forza se si sviluppano sinergie e metodi di concertazione per la definizione degli obiettivi con la persona. Inoltre l’art.47 nelle prescrizioni mette anche importanti riferimenti alle pratiche di giustizia riparativa. Un impianto che dovrebbe essere applicato anche ai soggetti prosciolti.

Nella traduzione operativa della Sentenza va evitato che si verifichi una delega completa ai DSM di ogni problematica di cura, sociale e di sicurezza ma è essenziale che ciascun soggetto istituzionale, nella collaborazione svolga il proprio ruolo.

Sul piano professionale, comprese le funzioni peritali, è necessario superare modelli valutativi positivisti, lineari e programmi di cura ideali mentre al contrario vanno evidenziate le condizioni necessarie per la cura, i limiti degli interventi e l’impossibilità da parte delle strutture dei DSM ad esercitare funzioni custodiali. Un punto che va esplicitato nel momento in cui si dà la disponibilità al Magistrato.

L’impianto complessivo è un’occasione per passare anche in questo ambito da un sistema paternalistico ad uno contrattuale, periodicamente rivisto anche per evitare che per i malati mentali le misure giudiziarie diventino sostanzialmente “sine die”.

Conclusioni

La Sentenza può sbloccare una situazione di stallo, dà un’interpretazione della normativa in linea con Costituzione e legge 180, fa chiarezza sull’utilizzo REMS. Al contempo cerca una sintesi tra esigenze diverse e contrastanti (cura e custodia) indicando un possibile punto di equilibrio per le pratiche dei diversi soggetti chiamati a collaborare.

Uno sforzo importante che probabilmente richiede la condivisione della visione di fondo (regionalizzazione, umanizzazione ecc.) al fine di dare coerenza e funzionalità all’intero sistema che veda la centralità della persona nella comunità e quindi porta a riflettere sul patto sociale, le politiche di accoglienza e inclusione messe a dura prova da spinte securitarie e giustizialiste. Il riferimento alla Costituzione e alla legge 180 sono essenziali al fine di evitare derive abbandoniche e soluzioni neomanicomiali negli Istituti di pena, talora evocati come l’unica sede in grado di tacitare problemi e contraddizioni.

La Sentenza, facendo riferimento al DPCM 1 aprile 2008, dà attuazione al principio costituzionale in base al quale alla persona vengono assicurate le cure necessarie indipendentemente dalla condizione giuridica. In questa linea vi è un tentativo di qualificare i percorsi di cura all’interno degli Istituti di pena e al contempo di assicurare i diritti e la continuità delle cure e creare quando ne ricorrano le condizioni adeguate alternative al carcere. Per l’attuazione di queste ultime viene dato spazio ad approcci della giustizia riparativa fondata sulla responsabilizzazione del reo.

In questo spirito, riconosciuti i diversi punti di vista della psichiatria e della giustizia, con umiltà, senso del limite, nella chiarezza delle competenze e nella specificità operativa, si tratta di sviluppare un doppio patto con la persona. Da un lato un patto con la giustizia mirante alla prevenzione di nuovi reati che si fondi su impegni contenuti nelle “prescrizioni”, dall’altro un patto con la psichiatria fondato sul consenso e l’adesione al “programma di cura” mirante alla salute. E’ evidente che questi approcci devono avere punti di convergenza e meccanismi di controllo e verifica che vanno definiti ex ante e comunicati alla persona. E’ poi essenziale un intervento bifocale con la persona e la sua comunità di riferimento.

Per quanto attiene all’operatività ritengo che sia essenziale un forte coinvolgimento del Ministero della salute, delle Regioni, delle Aziende Sanitarie e dei DSM nonché dell’intero sistema di welfare di comunità.

A tal fine vanno definite programmazioni regionali e sarebbe molto utile una Conferenza nazionale attuativa che veda coinvolti tutti i soggetti. La Sentenza determina un quadro nuovo che necessita di adeguate risorse e soluzioni alternative al carcere ma anche un affinamento dei criteri per la definizione di grave infermità mentale e un approccio che tenga conto della cultura, dell’organizzazione dei servizi di salute mentale di comunità i quali sono strutturalmente (oltre che per ragioni tecnico-scientifiche ed etiche) impossibilitati ad ogni azione custodiale. E’ un punto fermo con il quale deve essere raccordata tutta la nuova normativa e le prassi conseguenti, compresi i riflessi sulla responsabilità professionale e la posizione di garanzia.

E’ indubbio che dal 2008 vi sia stata una crescente attività sanitaria negli istituti di pena e tuttavia occorre ancora riflettere sulle Articolazioni per la tutela della salute mentale, i riferimenti tecnico-strutturali, i modelli di funzionamento e il loro inquadramento nella programmazione regionale e dei DSM. Senza questo è evidente il rischio di avere nuovi OPG negli istituti di pena e la riproposizione di pratiche che si stanno faticosamente superando.

Le persone ammalate non devono “appartenere” alla sola sanità, ma alla comunità ed hanno diritto non a meno sociale, abilitazione e opportunità ma a più interventi sociali che siano anche contestuali alle cure, qualificati ed efficaci. In uno spirito di collaborazione con la giustizia è necessario che vi sia un’accurata ed efficace attivazione dei servizi sociali competenti per territorio agendo di concerto con organismi come l’UEPE e il Dipartimento di giustizia minorile e di comunità.

Per tutti i soggetti nei quali la grave infermità mentale è incompatibile con la detenzione, le misure alternative vanno attuate nelle sedi individuate dal DSM competente per territorio e per questo è necessaria una programmazione regionale e delle singole aziende sanitarie. Per i DSM occorre strutturare competenze di psichiatria forense mediante apposite Unità Operative alle quali possano fare riferimento i colleghi, periti ma anche magistrati e legali. La definizione dei percorsi per le gravi infermità psichica potrebbe essere oggetto di una consensus conference. Lo stesso dovrebbe avvenire per le responsabilità degli operatori, superando ogni posizione di garanzia di controllo, di un impossibile compito custodiale e di preveggenza.

Ai fini dell’applicazione delle misure di comunità è necessario dare vita ad un sistema pattizio e progettuale, propositivo che preveda il coinvolgimento attivo e la responsabilizzazione della persona, la quale deve partecipare a tutte le fasi (udienze ecc.) ed essere adeguatamente sostenuto nei diritti, nella sua difesa ma anche per sviluppare un’ottica riparativa secondo gli orientamenti della “messa alla prova” (art.168 bis c.p. e segg., legge 67/2014, decreto 8 giugno 2015, n. 88). Occorre la co-partecipazione e il consenso della persona al percorso di cura. In questo quadro, attraverso un lavoro sinergico ma indipendente tra giustizia e sanità, potrà essere attuata l’osservazione della persona nella comunità e nella libertà. Servono azioni formative, osservatori e lo sviluppo delle garanzie e delle tutele in modo che il sistema non resti confinato ai tecnici ma sempre aperto alla comunità sociale. Pur nella complessità e gravosità dei compiti da svolgere, la Sentenza riaccende speranze di un progetto riformatore, di superamento del “doppio binario”, della pericolosità sociale e delle misure di sicurezza.

[1] “prioritariamente dei soggetti per i quali sia stato accertato in via definitiva lo stato di infermita’ al momento della commissione del fatto, da cui derivi il giudizio di pericolosita’ sociale, nonche’ dei soggetti per i quali l’infermita’ di mente sia sopravvenuta durante l’esecuzione della pena, degli imputati sottoposti a misure di sicurezza provvisorie e di tutti coloro per i quali occorra accertare le relative condizioni psichiche, qualora le sezioni degli istituti penitenziari alle quali sono destinati non siano idonee, di fatto, a garantire i trattamenti terapeutico-riabilitativi, con riferimento alle peculiari esigenze di trattamento dei soggetti e nel pieno rispetto dell’articolo 32 della Costituzione.”

[2] Angela Della Bella Riforma dell’’Ordinamento Penitenziario: Le novità in materia di assistenza sanitaria, vita detentiva e lavoro penitenziario,  Decreti legislativi 2 ottobre 2018, n. 123 e 124 (G.U. 26 ottobre 2018) Diritto Penale Contemporaneo, 7 novembre 2018  https://www.penalecontemporaneo.it/d/6317-riforma-dell-ordinamento-penitenziario-le-novita-in-materia-di-assistenza-sanitaria-vita-detentiva

[3] Garante Nazionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale  Relazione al Parlamento 2019 http://www.garantenazionaleprivatiliberta.it/gnpl/

[4] Sarebbe necessaria una consensus conference per definire criteri e strumenti valutativi da utilizzare, percorsi da attuare. Questo per tenere conto sia dell’ineliminabile soggettività presente nel lavoro psichiatrico, sia per fronteggiare i fenomeni della manipolazione, simulazione ed possibile utilizzo strumentale della psichiatria ad esempio da parte della criminalità.

[5] Breggin P. La sospensione degli psicofarmaci. Un manuale per i medici prescrittori, i terapeuti, i pazienti e le loro famiglie, Fioriti Ed . 2018

Print Friendly, PDF & Email