«È un fatto universalmente noto che uno scapolo provvisto di un cospicuo patrimonio non possa fare a meno di prendere moglie»[1]. Questo è il famoso incipit di Orgoglio e pregiudizio di Jane Austen. Vi chiedo ora di fare un piccolo esercizio: se invece del maschile “scapolo” vi fosse scritto “zitella”, quale sarebbe il fatto universalmente noto? C’è una forte dissimmetria e una differente connotazione tra l’idea di autonomia e di indipendenza declinata al maschile o al femminile. Questa è solamente la prima delle tante riflessioni che mi ha suscitato il libro Luride, agitate, criminali [2](Carocci editore) di Candida Carrino. Il volume è la sintesi di una ricerca sulle cartelle cliniche delle internate dell’ospedale psichiatrico Santa Maria Maddalena di Aversa (Caserta); questo è l’ultimo nome con cui la struttura è stata conosciuta, fino alla sua chiusura nel 1999, ma iniziò la sua carriera, nel 1813, con il più poetico “Reale Casa de’ matti”.
Carrino si muove all’interno dell’archivio dell’ex ospedale psichiatrico, studiando le cartelle cliniche e le storie in esse contenute. È un’azione interessante provare a ridare forma ad una persona dietro le pagine compilate, dove c’è scritto ciò che il medico voleva vedere e non ciò che la possibile internata avrebbe voluto raccontare. Per esempio, c’erano segnalati altri casi di pazzia in famiglia oppure azioni “anomale” compiute in passato; le cartelle cliniche non contengono dunque solo ciò che è accaduto dentro il manicomio ma anche quello che è accaduto fuori e prima. Già qua c’è un’ulteriore dissimmetria: è lo sguardo di un medico maschile che guarda il corpo femminile per trovare la follia (la principale diagnosi, con 302 casi, è per “malinconia/stato depressivo/psicosi maniaco-depressiva”), nonostante Camilla Restellini Bassanesi – di cui parlerò più avanti – chiese, nel 1947, che vi fosse «una medichessa»[3]all’interno della struttura.
Il libro è diviso in tre parti: la prima presenta dati e statistiche riguardo queste donne internate, come il contesto di provenienza, la professione praticata precedentemente, il grado di istruzione; nella seconda, l’autrice si sofferma su alcuni gruppi: le minorenni, le “deflorate”, le tribadi, le criminali; la terza parte invece è incentrata sul racconto di tre biografie.
Un primo dato con cui confrontarsi riguarda la sproporzione tra il numero di internati uomini (4398) e le internate donne (2411). Perché questo numero maggiore di uomini rispetto alle donne? Che la follia sia solamente una prerogativa maschile oppure questo disequilibrio nei numeri ha altre implicazioni? L’ipotesi che Carrino avanza riguarda il fatto che la gestione di un corpo femminile folle (o di un corpo folle femminile?) sia più semplice dal punto di vista dell’aggressività e, dunque, si riesce ad assoggettare e a placare con più facilità qualsiasi comportamento sia visto come a/normale. La soluzione era confinare dentro le mura della casa finché si poteva e si arrivava all’internamento nel momento in cui gli eventi smettevano di essere domestici e diventano intemperanze pubbliche; ovvero: scandali. Tornerò più avanti sul ruolo che ha lo sguardo del “pubblico”.
Il secondo dato riguarda lo stato civile di queste internate, solo un terzo erano sposate mentre le altre erano sole: libere, vedove, separate (anche “non specificato”). Il dato non è insignificante perché la decisione riguardante l’internamento era in mano al marito per le donne sposate (in Italia l’autorità maritale è stata abolita soltanto nel 1975) e alla comunità per le donne libere.
«La vulnerabilità delle donne sole era altissima; senza la protezione maritale si era costantemente esposte al pericolo dell’internamento, in quanto il controllo sociale su tale tipologia femminile era più alto e più impietoso, quasi che la società stessa avesse bisogno di difendersi e vigilare su queste donne incontrollabili e incontrollate da un autorità maschile che ne indirizzasse le scelte e le decisioni»[4].
Ecco che torna lo sguardo della comunità, lo sguardo che giudica. Riprendo le parole dello storico Domenico Rizzo: «Il metro di valutazione […] è “pubblico” perché lo spazio della moralità è spazio in primo luogo sociale»[5]. Alle donne sole, quindi non definite e non definibili in relazione ad una figura maschile, si toglieva la possibilità di vivere una vita propria e si arrivava all’internamento con malelingue, pettegolezzi, giudizi e denunce. Nella storia di Maria Vittoria, rimasta vedova, sono i figli stessi preoccupati per l’eredità a chiedere l’internamento (uno dei rari casi di donna proveniente da una famiglia agiata – il 99% delle internate era povera) affermando che sono assenti nella donna sentimenti verso la famiglia e amore verso i figli. Viene da dire, leggendo queste storie, che la follia non sia nemmeno negli occhi di chi guarda ma negli occhi di chi vuole vederla. Leggendo alcune delle storie che Carrino riporta ci si scontra subito con questo fatto: la follia non è mai questione di cosa un corpo e una mente possano produrre, ma di cosa si sia voluto guardare in questi. Il problema era tutto ciò che non rientrava nel normale senso del pudore, nell’essere una moglie e una madre ma nel voler liberare il proprio corpo e i propri desideri. Tra i motivi di internamento troviamo, per esempio: 41 donne che fuggono da casa, 12 incompatibili alla vita di famiglia, 8 aggrediscono il marito (chissà quanti mariti che hanno aggredito mogli sono finiti internati in un ospedale psichiatrico per questo motivo…), 4 hanno avuto rapporti sessuali occasionali, 3 sono stravaganti e altrettante si danno alla prostituzione, 2 gridavano, 1 per l’enigmatica motivazione “sentimenti erotici e religiosi” e 1 altra cantava e ballava per strada.
Tra le tre biografie che Carrino decide di approfondire, quella che più mi è rimasta impressa è la storia di Camilla Restellini Bassanesi. Camilla (1910-1993) era una grafomane e ha raccontato con le proprie parole quello che è accaduto a lei e al marito, puniti per il loro impegno politico con la scusa della poca cura verso i figli. Camilla, internata e lucidissima, iniziò a proporre riforme sociali riguardo l’organizzazione interna – oltre alla richiesta di una medichessa, riforme riguardo il gabinetto e il servizio medico. Ma questa sua voglia di cambiamento le fu additata come un «sintomo che la sfera intellettiva è difettosa»[6]. Voler migliorare la propria e l’altrui condizione è qualcosa da aggiustare, qualcosa che non va. Camilla ha lasciato anche un dattiloscritto, Il peggio incominciava, sui due anni passati ad Aversa – da dove esce grazie ad un dubbio battesimo e all’intervento di un deputato della Costituente. La sua vita si può leggere nella voce dell’Enciclopedia delle donne curata da Carrino stessa.
Di questo libro, Luride, agitate, criminali, ci sarebbe da parlare molto di più perché ogni piccolo dato, ogni insignificante statistica, ogni storia dimenticata stimola delle riflessioni su cosa è accaduto e su cosa accade ancora ora. Clelia, ammessa ad Aversa per la prima volta nel 1935, chiedeva di essere dimessa perché «adesso siamo nel Novecento»[7]e rivendicava il suo diritto di autodeterminarsi. Cara Clelia, pensa che ora siamo nel 2019 e le donne sole e libere continuano a fare paura.
[1]Jane Austen, Orgoglio e pregiudizio, Torino, Einaudi, 2007, p. 3 (traduzione a cura di Fernanda Pivano).
[2]Candida Carrino, Luride, agitate, criminali. Un secolo di internamento femminile (1850-1950), Roma, Carocci, 2018.
[3]Riportato in Carrino, Luride, agitate, criminali, p. 126.
[4]Carrino, Luride, agitate, criminali, pp. 32-33.
[5][5]Domenico Rizzo, Gli spazi della morale, Buon costume e ordine delle famiglie in Italia in età liberale, Roma, Biblink Editori, 2004, p. 41. Citato in Carrino, Luride, agitate, criminali, p. 27.
[6]Riportato in Carrino, Luride, agitate, criminali, p. 127
[7]Carrino, Luride, agitate, criminali, p. 64.
fonte: FORUM SALUTE MENTALE