Il surrogato dell’universalismo. di Gavino Maciocco

La sanità al tempo della Globalizzazione. Cosa è successo ai sistemi sanitari negli ultimi 40 anni, pervasi dall’ideologia neo-liberista, può essere condensato in poche frasi tratte da due articoli pubblicati su The Lancet in tempi diversi.

«Negli ultimi due decenni la spinta verso riforme dei sistemi sanitari basate sul mercato si è diffusa in tutto il mondo, da Nord verso Sud, dall’Occidente all’Oriente. Il “modello globale” di sistema sanitario è stato sostenuto dalla Banca Mondiale per promuovere la privatizzazione dei servizi e aumentare il finanziamento privato attraverso il pagamento diretto delle prestazioni (user fees). […] Questi tentativi di minare alla base i servizi pubblici, da una parte, rappresentano una chiara minaccia all’equità nei paesi con solidi sistemi di welfare in Europa e in Canada, dall’altra costituiscono un pericolo imminente per i fragili sistemi dei paesi con medio e basso reddito». (Whitehead, Dahlgren e Evans, 2001[1])

«In tutto il mondo ogni anno circa 150 milioni di persone affrontano spese sanitarie catastrofiche a causa dei pagamenti diretti delle prestazioni, mentre 100 milioni sono trascinate al di sotto della linea di povertà. Nella misura in cui le persone sono coperte da meccanismi di distribuzione del rischio e di prepagamento, si riduce anche il numero di coloro vanno incontro a danni finanziari causati dalle malattie. Un sistematico approccio verso l’Universal Health Coverage può avere un effetto trasformativo nella battaglia contro la povertà, la fame e la malattia». (Vega, 2013[2])

L’idea dell’ Universal Health Coverage (UHC) viene introdotta nella risoluzione dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, dedicata a Global Health and Foreign Policy e approvata il 6 dicembre 2012. Nella risoluzione si raccomanda che “tutte le persone abbiano accesso, senza discriminazioni all’insieme dei servizi preventivi, curativi e riabilitativi, definiti nazionalmente, e ai farmaci essenziali, sicuri, economici, efficaci e di qualità, con la garanzia che l’uso di questi servizi non esponga i pazienti – particolarmente i gruppi più poveri e vulnerabili – alla sofferenza economica” e invita gli Stati Membri a “far sì che i sistemi di finanziamento della sanità impediscano il pagamento diretto delle prestazioni da parte dei pazienti e introducano sistemi di prepagamento e di distribuzione del rischio per evitare spese catastrofiche a causa delle cure mediche e il conseguente impoverimento delle famiglie”[3].

L’UHC entra infine negli Obiettivi dello Sviluppo Sostenibile lanciati dalla Nazioni Unite nel 2016 , dove nell’Obiettivo n. 3 dedicato alla Salute (Health) si legge: “Achieve universal health coverage, including financial risk protection, access to quality essential health-care services and access to safe, effective, quality and affordable essential medicines and vaccines for all”.

Le istituzioni internazionali hanno impiegato oltre 30 anni per rendersi conto dei danni prodotti dalle politiche neoliberiste e della necessità di un cambiamento di rotta. Ci troviamo allora di fronte al ritorno dell’universalismo, a una sorta di ricorso storico? Non esattamente, perché la stagione che stiamo vivendo è profondamente diversa da quella in cui è nato e si è sviluppato l’universalismo. La stagione dell’universalismo fu quella in cui si costruì il “modello Beveridge”, un sistema sanitario accessibile a tutti, gratuito, finanziato dalla fiscalità generale e gestito dal settore pubblico. Anche i sistemi sanitari “modello Bismarck”, fondati sulle casse mutue, adottarono il principio  dell’universalismo (gratuità e accessibilità) anche se diverse erano le modalità di finanziamento e di gestione (vedi Beveridge vs Bismarck). La stagione dell’UHC è stata inaugurata dalla riforma sanitaria di Obama, approvata dal Congresso nel 2010 (e c’è un chiaro nesso temporale tra l’introduzione dell’Obamacare e la risoluzione delle Nazioni Unite del 2012). Si potrebbe concludere che l’Universalismo sta al National Health Service (delle origini), come l’Universal Health Coverage sta all’Obamacare.

L’idea di Barack Obama era quella di tendere alla copertura universale (in un paese che aveva quasi il 20% di persone non assicurate e dove le spese catastrofiche a causa di una malattia erano la principale causa di bancarotta familiare) attraverso una riforma “moderata” del sistema sanitario esistente, basato sul mix di assicurazioni private (per lo più pagate dal datore di lavoro) e assicurazioni pubbliche (Medicare per gli anziani, Medicaid per alcune categorie di poveri, e quella a favore dei militari in attività o in pensione) (vedi Obama: la riforma sanitaria è salva).

I tre principali obiettivi della riforma erano:

  • garantire a tutte le famiglie a basso reddito la rete di protezione di Medicaid;
  • incentivare fiscalmente l’acquisto di un’assicurazione privata;
  • eliminare gli abusi delle assicurazioni, come quello di negare l’iscrizione a persone con malattie pre-esistenti.

C’era nel programma di Obama anche un quarto obiettivo, quello di creare una nuova assicurazione pubblica (“public option”), competitiva nei confronti di quelle private sia nel prezzo, che nella qualità delle prestazioni. Obiettivo troppo ambizioso (e quello sì decisivo!), ma a cui dovette rinunciare su pressione del suo stesso partito.

Obamacare ha resistito finora agli attacchi dell’amministrazione Trump e in parte anche a quelli della Corte suprema, ma il bilancio è fatto di luci e ombre, le seconde  sempre più predominanti (vedi Sono pazzi questi americani). La “luce” è stata senz’altro la netta riduzione del numero dei non-assicurati: dal 2014 (data dell’effettiva entrata in vigore della riforma) al 2016, il numero dei non-assicurati è passato da 44 a 26 milioni (in percentuale della popolazione non anziana, dal 16,8 al 10%).

Ma dopo il 2016 si è verificata un’inversione di tendenza e il numero dei non-assicurati è ripreso a crescere (vedi Figura 1 – leggi qui qui). A contribuire a questa contro-tendenza c’è stata certamente la decisione di alcuni governatori Repubblicani di limitare l’accesso a Medicaid alle famiglie con basso reddito, ma il motivo più importante è stato la crescita impetuosa del costo delle polizze assicurative che ha scoraggiato il loro acquisto sia da parte delle imprese che dei singoli (Figura 2).

Figura 1.  USA. Numero e percentuale di non-assicurati tra la popolazione non anziana. Anni 2008-2017.

Figura 2. USA. Crescita cumulativa del costo dei premi assicurativi, del contributo dei lavoratori, in confronto con la crescita dell’inflazione e l’aumento dei salari. Anni 1999-2017.

A dimostrazione che è impossibile regolare un mercato assicurativo for-profit sempre più aggressivo. Altrettanto impossibile anche solo immaginare che il mercato assicurativo possa contribuire a raggiungere la copertura sanitaria universale. Ha quindi ragione Bernie Sanders a sostenere con forza la sua proposta di un sistema universalistico (quello originale), attraverso la formula Medicare-for-all, un programma assicurativo pubblico rivolto all’intera popolazione e  gestito dal Governo Federale (vedi Medicare for all: la mossa di Bernie).

Bibliografia

  1. Whitehead M, Dahlgren G, Evans T. Equity and Health Sector Reforms: Can Low-Income Countries Escape the Medical Poverty Trap?Lancet 2001, 358;833-836
  2. Vega J. Universal health coverage: the post-2015 development agenda. Lancet 2013; 381;179-80
  3. United Nations. General Assembly. Global Health and Foreign Policy resolution [PDF: 121 Kb]. A/67/L.36, 6 December 2012

FONTE: saluteinternazionale

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