Sono trascorsi poco più di 50 anni da quando Kingsley Davis, il sociologo e demografo che è stato uno dei padri dell’analisi delle transizioni demografiche, lamentava che nel dibattito sulle politiche per la popolazione fosse così difficile trovare una “esplicita discussione degli obiettivi di lungo termine” di tali politiche e si mostrava molto preoccupato per quella che chiamò, con terminologia allora nuova, “esplosione della popolazione”.
Tipicamente, osservava Davis, si forniva un rapido elenco dei danni che potevano derivare da quella esplosione per passare alle misure ritenute più idonee per affrontarla, tra le quali dominava la “pianificazione familiare” (cioè la contraccezione), ma ben poco si diceva su quale fosse la popolazione ottima. Da allora sembra passato ben più del mezzo secolo effettivamente trascorso. Al timore dell’esplosione della popolazione si è sostituita, in tutti i Paesi avanzati, la realtà della denatalità con i suoi effetti sulla dimensione della popolazione e sul suo invecchiamento. All’elenco dei danni che avrebbe causato l’esplosione della popolazione si sta sostituendo quello (non necessariamente unanime) dei danni provocati dalla denatalità, ma non si può dire che si sia sviluppata l’esplicita discussione di cui Davis lamentava la mancanza.
Iniziamo con alcuni dati resi noti dall’Istat e riferiti al 2018. Nel nostro Paese il numero medio di figli per donna è 1,32 (come nel 2017, ma in calo storico). Siamo quindi molto lontani dal tasso di rimpiazzo della popolazione, di 2,1 figli per donna. Sul territorio nazionale il massimo si ha in provincia di Bolzano (1,76) e il minimo in Sardegna (1,06). Per valutare le tendenze di lungo periodo del fenomeno si consideri che la fecondità è stata 2,16 per le donne nate nel 1940 e 1,53 per quelle nate nel 1968. È anche opportuno ricordare che in paesi come la Nigeria il tasso di fecondità supera 6.
Le nascite nel 2018 sono state 449 mila, 9 mila in meno rispetto al 2017e 128 mila in meno rispetto al 2008. Tale riduzione è per 91 mila unità dovuta alle madri straniere (67 mila delle quali con partner straniero). La conseguenza è un saldo naturale negativo di 187 mila unità; un dato peggiore (191 mila) si è verificato soltanto nel 2017. Fenomeni di questa natura sono presenti in pressoché tutti i Paesi avanzati e si calcola che più della metà della popolazione mondiale viva in Paesi con tassi di fertilità inferiori a 2,1. Tuttavia, nel panorama europeo l’Italia è uno dei Paesi con i dati peggiori: in Ue nel 2017, il numero medio di figli per donna è stato 1,59 (dall’1,90 della Francia all’1,26 di Malta) e l’età media al parto è stata di 29,1 (dai 26,1 anni della Bulgaria ai 31,1 dell’Italia).
Nell’ultimo decennio, in alcuni Paesi europei è diminuita l’età media al parto ed è aumentato il tasso di fertilità. In generale, si nota un lieve aumento di quest’ultimo nei paesi dell’Est, in Germania e Austria; mentre la tendenza opposta prevale nei Paesi scandinavi, britannici e mediterranei. In questi ultimi, peraltro, i valori iniziali erano già bassi. La Francia, a cui spesso si fa riferimento come modello da seguire per le politiche a favore della natalità, resta il Paese europeo con il tasso più elevato (1,90), ma da alcuni anni sperimenta un calo piuttosto marcato di quel rapporto.
Non è facile spiegare compiutamente queste tendenze e il ruolo delle variabili economiche. Un termine di riferimento, al riguardo, è l’approccio proposto già nel 1960 da Gary Becker, poi premio Nobel per l’economia (“An economic analysis of fertility”). Becker tratta la decisione di procreazione alla stessa stregua della decisione di acquistare un’automobile e, assumendo che le donne (e gli uomini) siano razionali nel senso inteso dagli economisti, conclude che il numero dei figli dipende dai costi di questi ultimi, dai loro benefici attesi e dai vincoli.
Un approccio come questo può suscitare un istintivo rigetto, ma numerosi studi empirici sulle cause della denatalità considerano importanti fattori che rientrano tra i costi, i benefici e i vincoli di Becker: il reddito della famiglia e l’occupazione della donna; il rischio di perdita dell’occupazione dopo la maternità; i costi da sopportare per allevare i figli; il valore che si attribuisce alla maternità e alla paternità in relazione ad altre attività e anche l’aiuto sociale di cui si potrà godere in caso di difficoltà con i figli.
In una recente indagine dell’Istituto Toniolo (“La condizione giovanile in Italia. Rapporto giovani 2016”, Il Mulino, 2016), alla domanda: “Se non avessi costrizioni o impedimenti di alcun genere, quanti figli vorresti avere in tutto?”, oltre l’80% ha risposto “almeno due”. Alla successiva domanda: “Realisticamente, quanti figli prevedi di avere nel corso della tua vita?”, la percentuale è scesa al 60%. Nello schema beckeriano la prima domanda forse suonerebbe più o meno così: “Quanti figli vorresti se non costassero nulla e tu non avessi altri vincoli economici?”; mentre le differenti risposte alle due domande verrebbero ricondotte all’altezza dei costi e dei vincoli di natura sostanzialmente economica. È però possibile che le risposte abbiano altre spiegazioni.
Un’implicazione di quanto precede è che il reddito non è né l’unica, né la principale determinante delle decisioni di avere dei figli, e infatti il loro numero non cresce sistematicamente con il reddito. Dunque, non è soltanto un problema di povertà. In un intreccio che non è facile districare rilevano non solo i vincoli economici, ma anche i costi e i benefici. E rileva anche la percezione che si ha della loro evoluzione. Dunque, conta il rischio che si percepisce guardando al futuro e tale rischio non è limitato alle variabili economiche, ma a ogni altro fattore rilevante rispetto al quale non è possibile “assicurarsi” con opportuni interventi sociali.
Un’indagine condotta qualche anno fa in Francia dà sostegno a queste argomentazioni. A 536 mila donne che avevano avuto da poco un figlio è stato chiesto se ne desiderassero un altro. Il 40% ha risposto di no. Il 18,4% aveva perso il lavoro: il 5,6% per licenziamento, il 12,4% per difficoltà di conciliazione (e qui si può ricordare che in Italia il rischio di perdere il lavoro è altissimo per le donne al secondo figlio). Del 72,5% delle mamme che continuava a lavorare solo il 27,8% utilizzava un asilo pubblico o privato e nel 52,3% dei casi erano essenziali i nonni. Il 28,3% delle madri che non si avvalevano di un asilo nido lo avrebbe fatto se le rette fossero state più basse.
In breve, le variabili economiche sembrano importanti. E la loro dinamica appare in grado di spiegare le tendenze alla denatalità. Per molte famiglie vale almeno una delle seguenti condizioni: il reddito è stagnante (anche a causa dell’omogamia che accresce il numero di famiglie in cui entrambi i membri percepiscono redditi bassi) ed esposto a rischi; i costi (monetari e non) sono in crescita; l’incertezza aumenta e i benefici, dipendenti anche dall’evoluzione delle preferenze e dei valori individuali, sono percepiti in calo. Tutto questo è piuttosto generico, ma dà un’idea della complessità del problema e invita a sospettare di misure salvifiche che incidono su una soltanto di queste variabili.
Se non è corretta da positivi saldi migratori, la denatalità porta alla riduzione della popolazione e al suo invecchiamento. Nel nostro Paese, l’età mediana è di quasi 46 anni (contro i 42,8 medi dell’Ue); la popolazione a inizio 2019 è pari a 60.391 mila (di cui 5.234 mila stranieri), in calo di 90 mila rispetto al 2018. Gli over 65 sono 13,9 milioni; gli under 14 soltanto 8 milioni. Secondo alcune stime la popolazione italiana potrebbe ridursi di oltre 7 milioni nei prossimi 50 anni.
Perché tutto questo dovrebbe essere un problema? l’Economist nel gennaio del 2006 scriveva: “La nuova demografia per la quale la popolazione invecchia e si riduce va celebrata. L’umanità una volta era presa in una trappola di alta fertilità e alta mortalità. Ora è proiettata verso la libertà della bassa fertilità e bassa mortalità”. Dunque, quel che conta è la libertà: di decidere i figli e di vivere più a lungo. Non si può certo sottovalutare questo punto che contrasta nettamente non dico con la procreazione forzata di Ceausescu (che ebbe effetti opposti, e terribili, rispetto a quelli attesi), ma anche con la critica di Hardin (il padre della “tragedia dei beni comuni”) all’idea che spettasse alla famiglia ogni decisione sulla sua dimensione.
Tuttavia, come accade quasi sempre, un solo criterio non aiuta ad affrontare i problemi nel modo migliore. Libertà individuale e benessere sono legati da ottimi rapporti, ma soltanto fino a un certo punto. L’invecchiamento, come è stato molte volte osservato, può porre seri problemi al welfare. Non si tratta meramente di come pagare le pensioni, ma – più fondamentalmente – di come produrre i beni e i servizi di cui ha bisogno una popolazione costituita sempre più di inattivi (che, dunque, non producono, ma consumano) e sempre meno da attivi (che devono produrre molto più di quanto consumano). La soluzione potrebbe essere l’aumento della produttività e forse anche l’immigrazione (non lo sarebbe, nel lunghissimo termine, l’allungamento dell’età pensionabile). Ma restando alla produttività entrano in gioco altri possibili effetti dell’invecchiamento e della declinante popolazione.
Secondo una ben nota teoria della crescita (mi riferisco a quella associata al nome di R. Solow), quest’ultima dipende dal ritmo al quale si espande la popolazione e dalla dinamica della produttività (che in questo approccio è esogena). Senza entrare nel merito di questa e di altre formali teorie della crescita, mi limito a richiamare un probabile effetto dell’invecchiamento: il rallentamento del tasso al quale procedono le innovazioni e, dunque, si espande la produttività.
In realtà, vi sono diversi motivi per sostenere che le innovazioni (quelle “inventate” e quelle adottate) dipendono largamente dai giovani: a) in generale gli inventori sono giovani; b) i giovani sono i principali consumatori di prodotti nuovi e, dunque, li “incentivano”; c) gli anziani sono più resistenti ai cambiamenti (anche nella sfera produttiva) indotti dalle innovazioni e, dunque, frenano la loro adozione e forse anche la loro “produzione” (The Economist, “Slower growth in ageing economies is not inevitable”, 29 marzo 2019)
Prendendo per buoni questi effetti (e vi sono buone ragioni per farlo) si può individuare un perverso intreccio tra denatalità e produttività. La prima produce a tempo debito le condizioni per un rallentamento della produttività e quindi della dinamica dei redditi medi, che a sua volta avrà effetti negativi sulla denatalità. Inoltre, il rallentamento della produttività rischia di creare seri problemi al welfare, almeno nella forma in cui oggi lo conosciamo.
Difficile dire se questo circolo vizioso abbia già avuto modo di manifestarsi in qualche Paese. Ma qualche sospetto si può nutrire e ciò dovrebbe essere sufficiente per intervenire su costi, vincoli e benefici. E non per andare verso l’ignota popolazione ottima che cercava Davis, ma per migliorare l’equilibrio tra libertà e benessere sostenibile. A questo scopo può essere utile una semplice osservazione: i figli sono, sotto diversi aspetti, un “bene pubblico” o, se vogliamo, essi generano – entro dati limiti – rilevanti esternalità positive; per questo motivo i vincoli e i costi che li riguardano non dovrebbero essere, come oggi accade, una faccenda quasi esclusivamente privata, da affrontare per di più in un mercato che non risparmia – a troppi – rischi di vario genere.
fonte: Rassegna Sindacale