Mentre la politica di governo – per bocca del Ministro dell’Interno – mastica gli slogan triti della fallimentare war on drugs, la Corte costituzionale, con la sentenza 40 del 2019, interviene sulla legislazione penale in materia di stupefacenti.
La decisione scaturisce dall’urgenza di sopperire al silenzio del legislatore, il quale, a fronte dei ripetuti inviti rivoltigli dalla stessa Corte costituzionale, non aveva ripristinato «il principio di necessaria proporzionalità del trattamento sanzionatorio» e risanato «la frattura che separa le pene inflitte per i fatti lievi e i fatti non lievi».
Tale frattura era stata causata dall’affastellarsi di leggi e sentenze della stessa Corte che, sconfessando gli inasprimenti repressivi della legge Fini-Giovanardi, avevano però determinato un divario sanzionatorio di eccessiva ampiezza tra fatti di lieve entità e fatti di non lieve entità: da sei mesi a quattro anni di reclusione per i primi, indipendentemente dal fatto che avessero ad oggetto droghe leggere o pesanti; da otto anni a venti anni per i secondi, quando si avesse a che fare con droghe pesanti. Nell’ambito delle droghe pesanti, dunque, la pena minima per i fatti gravi era diventata pari al doppio di quella massima prevista per i fatti lievi.
L’ “anomalia sanzionatoria” era accresciuta dal fatto che al banco del giudice non fosse possibile stabilire contorni netti tra i diversi fatti di reato, molti dei quali, come si legge nella sentenza, «si collocano in una “zona grigia”, al confine fra le due fattispecie di reato». Pertanto, a fronte di condotte non oltremodo differenziate sul piano della concreta offensività, il giudice si vedeva costretto a fornire risposte punitive gravemente differenziate.
A questo trattamento diseguale la Consulta mette ora fine, dichiarando illegittimo l’art. 73, comma 1, del Testo unico stupefacenti – contenente la disciplina dei fatti non lievi per le droghe pesanti – «nella parte in cui prevede la pena minima edittale della reclusione nella misura di otto anni anziché di sei anni».
Sono molti i profili di interesse di questa pronuncia, alcuni dei quali travalicano la materia degli stupefacenti.
Occorre dare atto che la sentenza scrive una pagina ulteriore e importante del rapporto tra Corte costituzionale e legislatore (dunque: politica). Preso atto dell’immobilismo del Parlamento, la Consulta decide di intervenire, anche a rischio di attirarsi critiche per avere invaso la sfera della discrezionalità politica. Lo fa perché, come è scritto nella 40/2019, «occorre evitare che l’ordinamento presenti zone franche immuni dal sindacato di legittimità costituzionale proprio in ambiti in cui è maggiormente impellente l’esigenze di assicurare una tutela effettiva dei diritti fondamentali, tra cui massimamente la libertà personale, incisi dalle scelte sanzionatorie del legislatore».
Va poi evidenziato che la mitigazione del trattamento punitivo degli illeciti conseguente alla pronuncia avrà effetto non solo per l’avvenire, ma anche per il passato, visto che sarà possibile rimodulare le pene irrogate in via definitiva, ma all’interno di cornici edittali illegittime. Gli effetti, si auspica, potranno in parte riverberarsi anche sul sovraffollamento carcerario, fenomeno di ritorno nonostante le parole ufficiali dei vertici dell’Amministrazione Penitenziaria lo neghino.
Sul piano più strettamente riguardante le sostanze d’abuso, a fronte delle preoccupanti aperture politiche all’inasprimento delle pene per i fatti lievi, la Consulta restituisce fiato a una razionalità giuridica che è bene non dimenticare. Sempre che si voglia contrastare il traffico di droga e non tornare a riempire il carcere di consumatori.
Riccardo De Vito è Presidente di Magistratura democratica
fonte: FUORILUOGO