Nel 2017 tre Regioni – Veneto, Lombardia ed Emilia Romagna – hanno intrapreso il percorso per il riconoscimento di ulteriori forme di autonomia in applicazione di quanto previsto dall’art.116, terzo comma, della costituzione italiana. Questa, legittima, previsione costituzionale è stata introdotta nel 2001 contestualmente alla riforma del titolo V della carta che ha ridefinito i rapporti tra i differenti livelli di governo (stato, regioni, province, città metropolitane e comuni), con l’obiettivo di valorizzare il decentramento e la prossimità territoriale. Una riforma che ha redistribuito le competenze legislative tra stato e regioni[1], articolandole in: esclusive statali; concorrenti (lo Stato norma i principi generali, le regioni la legislazione di dettaglio); esclusive regionali (anche dette “residuali”) e lasciando, tra le altre, allo stato la competenza esclusiva nella “determinazione dei Livelli Essenziali delle Prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale”. Conseguentemente il nuovo testo costituzionale ha previsto, nell’art.119, che alle istituzioni territoriali fossero attribuite le risorse necessarie a svolgere le funzioni assegnate e che fosse realizzato un sistema di perequazione a tutela dei territori con minore capacità fiscale.
Detto altrimenti: non è più lo stato a determinare tutta la legislazione nella sua interezza, ma sono concessi spazi di autonomia ai diversi territori per rispondere alle rispettive specificità in alcuni, importanti, ambiti di materie, fatta salva però, sia la conformità a principi generali che devono essere rispettati ovunque, sia la solidarietà tra tutti i territori nella distribuzione delle risorse nel rispetto di un principio perequativo e di progressività.
Oggi, Veneto, Lombardia ed Emilia Romagna – cui stanno facendo seguito con diverse modalità altre regioni importanti come Piemonte, Liguria, Marche, Toscana, Umbria e Campania – chiedono di poter esercitare la piena facoltà legislativa in gran parte (tutte nel caso del Veneto) delle competenze “concorrenti” e di poter avere maggiori margini normativi nelle materie di competenza esclusiva statale indicate dall’art.116 (giustizia di pace, norme generali sull’istruzione e tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali). Tutto questo, quando ancora non sono stati determinati tutti i principi generali, a partire dai Livelli Essenziali delle Prestazioni (LEP) a garanzia dei diritti civili e sociali, e non è stata data piena attuazione all’art.119 con la creazione di un sistema fiscale che tenga effettivamente conto della diversa ricchezza di ciascun territorio e delle differenti necessità al fine di ridurre i divari territoriali.
Quali saranno le concrete conseguenze di questa procedura?
Le richieste di autonomia avvengono in un contesto istituzionale caratterizzato dalle criticità originarie del titolo V riformato e dalle criticità provocate dalla sua mancata piena attuazione, cui si aggiunge un più importante dato di realtà: l’Italia è un paese ancora oggi dominato dalle forti e insostenibili disuguaglianze nella fruizione dei servizi pubblici e nell’esigibilità di diritti fondamentali. Disuguaglianze che non si limitano al noto divario territoriale Nord/Sud, ma che interessano le stesse regioni del Centro-Nord e che non potranno che aumentare se sarà concessa maggiore autonomia in importanti materie senza aver prioritariamente definito la cornice normativa nazionale a garanzia dell’unitarietà dei diritti costituzionali indisponibili che non possono essere esigibili in base alla regione di residenza.
Disomogeneità nei servizi sanitari e nella stessa garanzia dei LEA, che costringe cittadini a spostarsi in un altro territorio per avere assistenza sanitaria adeguata (figura 1). Differenziazione delle risorse finanziarie per i servizi sociali inaccettabile (dai 22 euro pro-capite della Calabria ai 160 dell’Emilia Romagna, ai 383 del Trentino Alto Adige), una spesa complessiva irrisoria (media nazionale 116 euro pro-capite) che scaricano sui cittadini i lavori di cura, presenza di servizi pubblici per l’infanzia lontana dagli obiettivi minimi fissati – la media nazionale dei posti in asilo nido è di 11,3 per 100 bambini in età 0-2 (figura 2) –, classi con tempo pieno che non superano 1/3 del totale, 7.500 studenti universitari idonei cui è negata la borsa di studio per mancanza di fondi: sono alcuni dei dati che certificano da una parte la mancata universalità dei servizi pubblici essenziali e dall’altra le forti divaricazioni territoriali esistenti già oggi nella garanzia di diritti.
Figura 1. Saldo mobilità sanitaria pro-capite (anno 2016)
Nota: per mostrare l’emigrazione sanitaria si può utilizzare un indicatore dato dal rapporto tra il saldo di mobilità sanitaria (la differenza tra i crediti e i debiti di ciascuna regione per le prestazioni erogate ai cittadini residenti in altra regione) e la popolazione. Le regioni con valori positivi sono quelle con capacità attrattiva, quelle con valori negativi sono quelle i cui cittadini si spostano per curarsi.
Figura2. Posti asilo nido per 100 bambini 0-2 anni (anno 2016)
Fonte: Istat
Attribuire ad alcune realtà territoriali la facoltà di legiferare su importanti materie quali istruzione, sanità, lavoro e ambiente senza un quadro nazionale di riferimento pienamente definito e senza aver colmato i divari esistenti, comporterebbe un’ulteriore frammentazione dei diritti civili e sociali fondamentali.
Né si può ignorare che maggiore autonomia, senza un quadro comune definito che fissi i principi indisponibili, non diventa necessariamente sinonimo di efficienza, ma può essere anche sinonimo di deroga, e se si deroga a una tutela o a un diritto fondamentale, di positivo, anche per quel territorio, c’è molto poco. Per essere positiva, l’autonomia deve essere agita in una cornice normativa che definisca i limiti invalicabili a garanzia dell’universalità di diritti e principi fondamentali o si rischia di porli nella disponibilità della maggioranza politica della regione, creando una disarticolazione inaccettabile.
La concessione di maggiore autonomia in tante importanti materie da una parte sposta l’attenzione dalla necessità prioritaria (e non più rinviabile) di rafforzare e radicare i servizi pubblici, creando in ogni regione quella infrastruttura sociale necessaria a contribuire al pieno sviluppo della persona – dall’infanzia all’età adulta – e alla sua partecipazione attiva, dall’altra, affidando a ciascuna regione la titolarità di fondamentali politiche, rischia di diminuire ulteriormente le tutele e le possibilità di inclusione sociale, condizionandole ai provvedimenti territoriali.
Si sta parlando della garanzia del diritto a ricevere assistenza sanitaria pubblica adeguata ovunque, del diritto all’istruzione, del diritto a ricevere prestazioni sociali essenziali, si sta parlando di politiche per il lavoro, di tutela dell’ambiente e del paesaggio, di governo del territorio, di unitarietà della contrattazione nazionale, di redistribuzione delle risorse nel rispetto di un principio solidaristico… si sta parlando di garantire esigibilità dei diritti e servizi pubblici su tutto il territorio, senza lasciare indietro nessuno.
L’efficienza e il benessere non sono un bene limitato e gli stessi diritti fondamentali non possano essere nella completa disponibilità di una amministrazione regionale. Il decentramento e l’autonomia non andrebbero utilizzati come strumenti per cristallizzare, se non incrementare, le disuguaglianze tra territori, ma per mettere in atto politiche volte a ridurre e disuguaglianze, nel rispetto delle norme nazionali di tutela comune, e senza tradire il dettato costituzionale della perequazione e della progressività. L’autonomia dovrebbe rispettare il patto sociale che rende ogni cittadino uguale nella fruizione di un servizio pubblico, non trasformare un diritto universale in un privilegio dato dalla residenza.
Note
[1] Art.117, secondo, terzo e quarto comma.
Fonte: InGenere