All’ultima sessione della Commissione Onu sulle Droghe sono state presentate le Linee Guida sui Diritti Umani e le Politiche sulla Droga. Gli autori sono l’Organizzazione Mondiale per la Sanità, il Programma Onu per lo sviluppo, quello per l’HIV/AIDS e il Centro Internazionale per i diritti umani dell’università di Essex. “Le politiche sulla droga hanno impatti molto significativi sui diritti umani” si legge in premessa, occorre quindi “sviluppare politiche che rispettino gli obblighi internazionali relativamente alla proporzionalità delle pene, le discriminazioni fino ad arrivare al diritto a godere dei benefici del progresso scientifico anche per l’accesso a terapie per le dipendenze e a prevenire le overdose”.
Queste raccomandazioni avevano seguito di poco l’intervento in plenaria di un generale filippino che aveva rivendicato la politiche del presidente Duterte contro drogati e spacciatori che hanno creato un regime di terrore nel paese con spedizioni di paramilitari che hanno ucciso oltre 15000 persone in due anni.
Se non fosse stato per un dibattito organizzato da DRCNet Foundation, Forum Droghe e l’Associazione Luca Coscioni nessuno avrebbe replicato pubblicamente alle Filippine. Contro la retorica governativa, giornalisti e attivisti hanno raccontato la loro versione via video da Manila. Chel Diokno, avvocato dei diritti umani e candidato liberale alle prossime elezioni per il Senato, ha denunciato come Duterte “non si interessi della pressione internazionale”, in particolare del Parlamento europeo e del Congresso USA, mentre per la società civile che si oppone a questa guerra senza quartiere è fondamentale “che la pressione” resti perché è “stata molto importante nell’evidenziare globalmente cosa stia succedendo nelle Filippine influenzando l’operato del governo […] speriamo che continui affinché Manila aderisca ai suoi impegni previsti dai trattati internazionali sui diritti umani.”
Secondo gli ultimi dati dell’agenzia filippina per le droghe, oltre 5000 persone sono state uccise dalla polizia durante i rastrellamenti degli ultimi tre anni, Diokno e altri militanti dei diritti umani stimano le uccisioni intorno alle 20000 includendo le morti “ispirate” dalla campagna di odio fomentata da Duterte.
Da un paio d’anni, e dopo un simile evento all’Onu di Vienna del 2017, un gruppo di giuristi filippini, con la collaborazione di altre associazioni sta compilando un dossier sulle esecuzioni extra-giudiziarie. L’unico modo di poter portare davanti alla giustizia un Capo di Stato in carica sarebbe ricorrere alla Corte penale internazionale. Per l’appunto, e proprio per via delle condotte del Presidente Duterte, le Filippine sono uscite dal Trattato di Roma sulla CPI il 17 marzo 2019 – due giorni prima del dibattito di Vienna e un anno dopo averlo ufficialmente annunciato. Uscire dallo Statuto non è tecnicamente semplice ma la volontà politica è chiara.
Se l’attenzione internazionale degli ultimi anni ha concorso a bloccare gli squadroni della morte, il regime di violenza ha talmente terrorizzato centinaia di migliaia di persone che in massa si sono “volontariamente” fatte interrogare e perquisire. Naturalmente il traffico di stupefacenti non ha subito significative battute d’arresto nelle oltre 7000 isole dell’arcipelago restando una delle principali vie di transito da e per la Cina.
La pressione internazionale sulle Filippine potrà funzionare se alle parole seguiranno i fatti: opporsi a Duterte senza porre fine alle politiche repressive in Europa e USA non funzionerà, le linee guida per le politiche sulla droga vanno in primis applicate a Roma, Parigi, Washington e Brasilia e poi, naturalmente a Manila, Pechino, Mosca, Riad e Teheran.
fonte: FUORILUOGO