Bumikka Suhinthan, ragazza irlandese di quindici anni con la sindrome di Down, si è vista recentemente rifiutare il visto per trasferirsi in Nuova Zelanda. Secondo le autorità neozelandesi, infatti, Bumikka non dimostrerebbe «uno standard accettabile di salute» e potrebbe «caricare di costi significativi» il sistema sanitario ed educativo del Paese.
In due analoghi episodi, nel 2016 e nel 2008, ai tredicenni Peter (con autismo) e Lukas (con sindrome di Down), fu rifiutata la residenza, per le medesime ragioni, rispettivamente in Nuova Zelanda e nella “vicina” Australia. In tutti e tre i casi il visto era stato, invece, rilasciato a tutti gli altri membri della famiglia.
La discriminazione di Bumikka – così come in precedenza quelle di Peter e Lukas – mette in luce sia le molte facce del razzismo, sia l’illimitata violenza discriminatoria insita in ogni discorso in cui si riduce la persona a “costo”. Inoltre, le ragioni del suo respingimento, ossia la pretesa necessità di difendere “prima” gli interessi dei bambini neozelandesi, richiamano, in un sinistro parallelismo, alcune delle giustificazioni adottate per i respingimenti e la chiusura dei porti del nostro Paese, ossia la presunta necessità di difendere “prima” gli interessi degli italiani.
Per provare ad analizzare le possibili contiguità tra tali chiusure, potrebbe essere utile riprendere alcuni passaggi di Bisogna difendere la società, corso tenuto al College de France nel 1976 dal filosofo e sociologo Michel Foucault, in cui si evidenziava come il razzismo sia «un modo per frammentare, istituire delle cesure all’interno di una popolazione perché si possa stabilire una relazione positiva del tipo: “più ucciderai, più farai morire o più lascerai morire, più, perciò stesso, tu vivrai. […] Questo meccanismo potrà funzionare proprio perché i nemici che si tratta di sopprimere non sono gli avversari, nel senso politico del termine, ma costituiscono i pericoli, esterni o interni, in rapporto alla popolazione e per la popolazione. […] Sia ben chiaro che quando parlo di messa a morte non intendo semplicemente l’uccisione diretta, ma anche tutto ciò che può essere morte indiretta: il fatto di esporre alla morte o di moltiplicare per certuni il rischio di morte, o più semplicemente la morte politica, l’espulsione, il rigetto».
Un «razzismo di Stato», dunque, che connota un potere statale centralizzato, unico detentore della “norma” e che deve combattere una lotta «contro quelli che deviano rispetto a questa “norma”, contro quelli che costituiscono altrettanti pericoli». Un «razzismo di Stato» che sarà esercitato, quindi, non solo verso l’esterno, ma anche (e sempre più) contro elementi interni alla società stessa. I muri che sono alzati in nome di questo «razzismo di Stato» non servono solo a separare dall’esterno, ma anche a segregare all’interno.
Nella ricorrente narrazione del “bisogna difendere la società” con cui si tenta di giustificare la chiusura dei porti e di alimentare l’indifferenza verso i morti nel Mediterraneo, si nasconde il virus di un razzismo che non riguarda solo il migrante, lo straniero, ma che sta progressivamente infettando i diversi àmbiti del vivere sociale.
La frequenza con cui si stanno ripetendo gravi episodi di abilismo (ossia la discriminazione verso le persone con disabilità), di sessismo, di omofobia, così come la progressiva criminalizzazione di povertà e solidarietà, rappresentano alcune delle forme dell’odierno dilagare di questo razzismo che non può essere arginato e contrastato in modo settoriale o “per comparti”, ma solo a partire da un dialogo, un impegno e iniziative sempre più interconnesse, aperte e trasversali.
fonte: SUPERANDO