Nel 1531 Carlo V affidava la gestione dell’elemosina alle autorità locali e nello stesso anno Jean Luis Vives pubblicava il suo «De Subventione Pauperum». La regina Elisabetta I ha fatto altrettanto con le «Poor Laws» alla fine del 1500. In modi diversi affrontavano l’assedio dei poveri che chiedevano aiuto, non ancora per giustizia ma per compassione e carità. Nell’Ottocento il passaggio dalle monarchie alle giovani democrazie ha reso inevitabile la transizione da carità a giustizia. Georg Simmel ai primi del 1900 sintetizza così il problema e la soluzione: «Le azioni (delle istituzioni) centrali lottano contro la povertà e quelle locali aiutano i poveri». Ma anche oggi la gestione centrale è assistenzialismo che amministra il rapporto di potere tra chi aiuta e chi è aiutato, pratica l’accattonaggio elettorale e gestisce senza imbarazzo lo scambio tra consenso e trasferimenti. Negli ultimi 20 anni abbiamo bruciato circa 20 miliardi di euro in «trasferimenti sperimentali» incapaci di risultati, senza contare la spesa per le misure aggiuntive introdotte dalle regioni. I poveri hanno ricevuto redditi minimi, di ultima istanza, di inclusione… senza uscire dalla povertà, con tanto prestazionismo assistenziale. Sono aumentati i poveri assoluti, quelli relativi e le persone a rischio di povertà. La spesa per l’assistenza sociale è cresciuta del 21% negli ultimi 5 anni e in Europa siamo tra i primi per povertà di lungo periodo, con trasferimenti che non aiutano ad aiutarsi, fanno parti uguali tra disuguali, lottano contro la povertà senza i poveri, mentre il welfare non affronta il passaggio da costo a investimento. L’idea di tassare la bontà è sembrata la soluzione, per aumentare una raccolta fiscale che non persegue chi evade, ma è un «Dies Irae» anzi «Ires» per i no profit, i volontari, i religiosi, le fondazioni…, cioè milioni di persone che quotidianamente aiutano poveri, emarginati, bambini senza futuro, persone fragili e non autosufficienti. Tutti insieme sono un argine umano alla crescita delle disuguaglianze. Amministrano capitali profondamente umani, coltivano sistemi di fiducia, moltiplicano l’impatto sociale cercando di fare bene il bene, creano valore, cercano nuovi modi per diventare società solidale. Perché non metterli alla prova? Hanno salvato tante persone, provino a farlo con meno mezzi, meno riconoscimenti, meno favori istituzionali. Come? Passando dalla «De subventione pauperum» al «Pauperum adiuvare…» tassando chi aiuta i poveri. La distanza tra chi evade e chi aiuta pagando (in tasse e in bene comune) è enorme. La tolleranza fiscale per gli evasori e l’accanimento ingiustificato per chi dona è innaturale, inquina la possibilità di propagare il bene, come chiede la Costituzione «Ogni cittadino ha il dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, un’attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società» (art. 4, comma 2), promuovendo solidarietà e incontri tra diritti e doveri. La possibilità di «concorrere al progresso materiale e spirituale» è cioè lievito e antidoto alla diffidenza tra uno stato che assiste e una società che aiuta. Ma non è il caso di preoccuparsi, «Rimedieremo alla prima occasione!», intanto la legge di bilancio mette in rotta di collisione la raccolta fiscale con la raccolta di umanità. Chi dona finirà per chiedersi «Se questo è welfare». È povero di idee, incapace di rinnovarsi, ossessionato dalle scadenze elettorali, non distingue il bene dal male, è forte con i deboli e debole con i forti…, introduce un nuovo diritto: il reddito senza lavoro ma la Costituzione non l’aveva previsto. Fonte: Editoriale Studi Zancan · 6/2018 · 3 Politiche e servizi alle persone |