La questione meridionale? Nasce con l’Unità d’Italia. di Guilherme de Oliveira, Carmine Guerriero

Quando è iniziata la divaricazione tra Nord e Sud Italia? A favorirla sono state le politiche economiche dei primi governi dopo l’unificazione del paese. Ed è una lezione che andrebbe tenuta a mente ancora oggi, quando si parla di federalismo differenziato.

Dal Medioevo al Risorgimento

Lo scontro sul federalismo differenziato è solo l’ultima manifestazione della questione meridionale.

Secondo diversi studiosi, l’origine dell’attuale divario economico tra Nord e Sud sarebbe da ricercare nella esperienza comunale medievale, che avrebbe aiutato il primo a sviluppare un maggiore civismo e, quindi, mercati più competitivi e un’amministrazione più efficiente (Robert Putnam e altri). L’ipotesi è coerente con le altre spiegazioni del fenomeno: il maggiore potere delle élite latifondiste (Emanuele Felice), la natura più marcatamente feudale (Antonio Gramsci) e la maggiore arretratezza tecnologica (Leopoldo Franchetti e Sidney Sonnino) che caratterizzava il Regno delle Due Sicilie rispetto agli altri stati preunitari.

Per quanto attraente nella sua linearità, l’ipotesi risulta troppo semplicistica. Due recenti risultati chiariscono il perché. Serra Boranbay e Carmine Guerriero mostrano che la correlazione tra il civismo di oggi e l’inclusività delle istituzioni politiche medievali svanisce se si considera il civismo passato. Mentre Giovanni Federico, Carlo Ciccarelli e Stefano Fenoaltea e Paolo Malanima documentano che i due blocchi erano parimenti sottosviluppati nel 1861, a causa della scarsità di capitale umano, capitale reale e infrastrutture.

Sulla scia di tali risultati, in de Oliveira e Guerriero mostriamo come gli attuali divari Nord-Sud si aprirono principalmente a causa delle politiche economiche dei primi governi postunitari. Dominati dall’élite settentrionale, che produsse l’85 per cento dei presidenti del consiglio, tutti i prefetti e il 60 per cento dei vertici amministrativi (Christopher Duggan), quei governi favorirono, tra le tredici regioni annesse dal Regno di Sardegna nel 1861, quelle più vicine ai confini militarmente più rilevanti per i Savoia e minarono civismo, capitale umano e crescita di quelle più distanti (figura 1).

Figura – La rilevanza politica delle regioni annesse dal Regno di Sardegna

Nota: Le regioni annesse dal Regno di Sardegna nel 1861 sono divise in tre gruppi a seconda della relativa rilevanza politica, definita come l’inverso della distanza tra la città principale della regione e la capitale del più temibile tra gli stati nemici dei Savoia: Vienna nei periodi 1801-1813, 1848-1881 e 1901-1914, e Parigi negli altri.

La riforma protezionista del 1887, per esempio, non salvaguardò l’arboricoltura meridionale schiacciata dal declino dei prezzi internazionali degli anni Ottanta, ma protesse le industrie tessili e siderurgiche settentrionali sopravvissute al periodo liberista grazie alle commesse statali (Guido Pescosolido). Una logica simile guidò, poi, le bonifiche agrarie, l’assegnazione del monopolio del conio alla piemontese Banca Nazionale, l’affidamento dei monopoli nella costruzione e operazione di navi a vapore alle genovesi Rubattino e Accossato-Peirano-Danovaro e, soprattutto, la spesa pubblica nella rete ferroviaria (figura 2), che rappresentò il 53 per cento del totale tra il 1861 e il 1911 (Giovanni Iuzzolino e altri).

Figura 2 – Reddito, potere politico, tasse sulla proprietà fondiaria e strade ferrate

Nota: “GDP-L” è il reddito in lire pro capite del 1861, “Political-Power” rappresenta la percentuale di primi ministri nati nella regione. Mentre “Land-Taxes” è il gettito della tassa sulla proprietà fondiaria in lire pro capite del 1861, “Railway” indica la lunghezza delle strade ferrate costruite nel decennio precedente in km per km quadrato.

Fonte: de Oliveira e Guerriero (2018)

A peggiorare la situazione, quell’investimento pubblico fu in buona parte finanziato da imposte sulla proprietà fondiaria altamente squilibrate. La riforma del 1864 fissò, infatti, un “contingente” di 125 milioni da raccogliere per il 10 per cento dall’ex Stato pontificio, per il 40 per cento dall’ex Regno delle Due Sicilie e per il 21 per cento (29 per cento) dall’ex Regno di Sardegna (resto del Regno d’Italia) (figura 2). Date le differenze tra i catasti regionali e la conseguente impossibilità di stimare la redditività agraria, queste politiche fiscali, insieme alla mancanza di un efficiente sistema bancario, ebbero al Sud conseguenze estremamente negative sugli investimenti privati (Giannino Parravicini), nonostante la perequazione avviata nel 1886. Nei decenni successivi, un fiorente settore manifatturiero si affermò nel Settentrione, mentre il connubio tra limitata spesa pubblica e alta tassazione compromise, nel resto della penisola, l’agricoltura orientata all’esportazione, il settore industriale e la relazione stessa tra cittadini e stato (figura 3), come suggeriscono le 150 mila vittime del brigantaggio e l’emigrazione di massa di inizio Novecento (Vera Zamagni).

Le politiche dopo l’unificazione

Nel nostro lavoro, ci siamo focalizzati sul periodo 1861-1911, nel quale le politiche economiche variarono a livello regionale. L’economia nazionale era allora prettamente agraria, perciò abbiamo scelto come misura diretta dell’imposizione fiscale il gettito delle tasse sulla proprietà fondiaria pro capite in lire del 1861 e lo abbiamo messo in relazione con la produttività dell’agricoltura orientata all’esportazione, a una misura inversa dei costi di esazione e alla misura inversa della rilevanza politica (figura 1).

Le nostre stime mostrano che, prima dell’unificazione, la tassazione diminuiva con la produttività agricola di ciascuna regione, ma non era legata alla sua rilevanza politica. Dopo il 1861 è vero il contrario. I risultati sono coerenti con il maggiore potere militare, e quindi impositivo, dello stato postunitario. Inoltre, le variazioni nella tassazione (misurate dalla differenza tra gettito pro capite postunitario e quello previsto attraverso le stime preunitarie) e il peso delle altre politiche impositive sono legati a un maggiore deterioramento del civismo, a un più lento calo dell’analfabetismo e a una minore crescita (figura 3).

Figura 3 – L’origine unitaria dell’attuale divario economico tra Nord e Sud Italia

Nota: “Distorsion-LT” è la stima delle distorsioni nei livelli della tassazione della proprietà fondiaria in lire pro capite del 1861, “Distorsion-R” rappresenta quella delle distorsioni nella lunghezza delle strade ferrate costruite nel decennio precedente in km per km quadrato. “Culture-N” è la percentuale di popolazione attiva impegnata in attività politiche, sindacali e religiose, “Illiterates-N” indica la percentuale degli analfabeti nella popolazione oltre i sei anni. Le due ultime misure sono normalizzate in modo che la loro media nel 1861 sia 1.

Fonte: de Oliveira e Guerriero (2018)

Va poi escluso che quelle politiche fiscali fossero l’inevitabile prezzo per partecipare alla seconda rivoluzione industriale (Rosario Romeo). In primo luogo, non hanno modificato il valore aggiunto del settore manifatturiero. In secondo luogo, mentre l’investimento ferroviario preunitario fu guidato dal bisogno di trasportare grano, quello postunitario fu determinato solo dalla rilevanza politica (figura 3) e fu inutile nella creazione di un mercato interno che assorbisse le produzioni più penalizzate dal calo della domanda internazionale.

Dalla dinamica istituzionale che ha caratterizzato l’inizio della nostra storia unitaria si può dunque trarre una lezione utile ancora oggi: politiche economiche che favoriscono solo una parte del paese possono avere un impatto drammatico e duraturo sulle scelte del resto della nazione.

fonte: lavoce.info

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