Il mito di Europa, figlia di Agenore, rapita da Zeus, che, assumendo le sembianze di un toro bianco, la portò dalla lontana Fenicia verso l’isola di Creta, è la rappresentazione simbolica del viaggio, dello sconfinamento. La rotta del toro bianco è più o meno la stessa rotta seguita dai profughi siriani. A Creta Europa mise al mondo i suoi figli. A Lesbo la Grecia detiene in condizioni degradate di vita tra i sette e i dieci mila richiedenti asilo. Creta simboleggia l’Europa che nasce. Lesbo l’Europa che soffre e che fa soffrire.
E’ stata un’Europa timorosa, chiusa in se stessa, rinunciataria nei confronti di politiche di coesione sociale, afflitta da una pericolosa tendenza verso l’egoismo proprietario e identitario, a suggerire ai suoi Stati, sin dalla fine del decennio scorso, una declinazione della questione migratoria in termini di sicurezza pubblica, con accostamenti avventati e ingiustificati al tema della criminalità.
Il risultato, in epoca di pericolose ondate nazionalistiche, è un approccio emotivo, irrazionale, disumano. Lo straniero, sempre più, è divenuto il nemico intorno al quale costruire un diritto penale parallelo e privo di quelle garanzie che sono abitualmente assicurate ai criminali ordinari (Günther Jakobs, 1985). D’altronde, cos’altro è il sistema della detenzione amministrativa dei migranti sregolata nei contenuti e indeterminata nel tempo – questa è la condizione attuale ad esempio di 700 mila immigrati in attesa di espulsione negli Stati Uniti d’America – se non una forma di diritto penale parallelo e dunque privo di limiti e cautele giurisdizionali.
Chiare sono state le parole di papa Francesco espresse nel 2014 (Patrizio Gonnella, Marco Ruotolo, 2016) nel descrivere il dramma di un diritto penale che si mette a disposizione delle idee xenofobe: «Negli ultimi decenni si è diffusa la convinzione che attraverso la pena pubblica si possano risolvere i più disparati problemi sociali, come se per le più diverse malattie ci venisse raccomandata la medesima medicina…Non si cercano soltanto capri espiatori che paghino con la loro libertà e con la loro vita per tutti i mali sociali, come era tipico nelle società primitive, ma oltre a ciò talvolta c’è la tendenza a costruire deliberatamente dei nemici: figure stereotipate, che concentrano in sé stesse tutte le caratteristiche che la società percepisce o interpreta come minacciose. I meccanismi di formazione di queste immagini sono i medesimi che, a suo tempo, permisero l’espansione delle idee razziste».
Nel momento in cui la retorica anti-migratoria è forte e viene urlata con toni identitari, escludenti, discriminatori, non saranno gli argomenti razionali di tipo economico, finanziario, demografico, previdenziale a scalfirla. Anzi rischiano di rafforzarla. Al cittadino impaurito, nonché pronto ad alimentare una tendenza diffusa alla xenofobia, interessa poco il motivo per cui la persona è immigrata, e non è confortato dall’idea che lo straniero (ancor più se di colore) possa compensare il calo delle nascite.
Dunque ad argomenti irrazionali e identitari vanno contrapposti argomenti di principio, i quali sono: l’universalità dei diritti, tra i quali va incluso il diritto alla libertà di movimento, e la loro fondazione sulla dignità umana, la quale non è nella disponibilità di nessun governante (Stefano Rodotà, 2012).
Il migrante come nemico non ha fondatezza giuridica. Il migrante come criminale è un declino post-lombrosiano della cultura politica oggi dominante. Esso è una costruzione artificiosa del diritto in evidente distonia con il principio dell’offensività penale.
I dati riguardanti gli stranieri che commettono reati diversi da quelli di mero status (ossia il delitto di immigrazione irregolare laddove presente negli ordinamenti giuridici interni), qualora letti in modo dinamico e appropriato, contribuiscono a decostruire letture distorte e stereotipate. Uno sguardo alle vicende italiane è paradigmatico. Non c’è correlazione tra i flussi di migranti in arrivo in Italia e i flussi di migranti che fanno ingresso in carcere. Uno sguardo diacronico nel tempo aiuta la riflessione.
Tabella numero 1. Rapporto tra stranieri residenti e stranieri detenuti
Il primo stereotipo da cancellare è il seguente: aumenta il numero degli immigrati residenti in Italia e di conseguenza aumenta quello dei criminali. Falso. Negli ultimi quindici anni, a partire dal 2003, alla più che triplicazione degli stranieri residenti in Italia è seguita, in termini percentuali, una riduzione di quasi tre volte del loro tasso di detenzione. Un dato straordinario in termini di integrazione e sicurezza collettiva.
Il secondo stereotipo da cancellare è il seguente: gli stranieri commettono i crimini più efferati. Falso. Infatti gli stranieri sono l’1,1% dei detenuti in carcere per associazione a delinquere di stampo mafioso. In percentuale commettono meno delitti contro la persona rispetto alla loro rappresentanza generale della popolazione detenuta. Di converso gli stranieri costituiscono il 38,9% dei detenuti in carcere per violazione della legge sugli stupefacenti. È evidente che un provvedimento concreto e pragmatico di depenalizzazione e/o legalizzazione delle droghe, a partire da quelle leggere, ridurrebbe di tantissimo la presenza degli stranieri in carcere.
Cancellato questo doppio stereotipo si potrebbe costruire una più saggia politica di prevenzione criminale partendo dall’analisi dei dati di flusso. I rumeni per vari anni sono stati considerati il pericolo primo delle nostre città con generalizzazioni e stigmatizzazioni. La storia della loro comunità in Italia evidenzia come il tempo aiuta l’integrazione socio-lavorativa e di conseguenza riduce i rischi di effettuare scelte delittuose. Il patto di legalità ha pienamente funzionato per la comunità rumena (così come per quella albanese). All’aumentare della presenza quantitativa di cittadini romeni in Italia, è diminuita nettamente sia in termini assoluti che percentuali la presenza di detenuti romeni nelle nostre prigioni.
Tabella numero 2. Rapporto tra cittadini romeni residenti e cittadini romeni detenuti. I dati del 2018 sono riferiti a marzo
I cittadini italiani residenti in Italia sono circa 55 milioni. I detenuti italiani ristretti nelle carceri italiane sono 38.412. Il tasso di detenzione degli italiani è dello 0,06%, superiore a quello di alcune comunità straniere come ad esempio quella filippina. Quest’ultima merita un’attenzione specifica e introduce un ulteriore concetto nel dibattito criminologico e sociologico sull’immigrazione, ossia quello di fiducia. La comunità filippina è, a differenza di altre nazionalità (si pensi a quella tunisina, molto presente nelle carceri e composta al 62% da uomini), prevalentemente costituita da donne. E le donne hanno in generale un tasso di detenzione bassissimo, ossia intorno al 5%. Una politica non pragmatica diretta alle ricongiunzioni familiari avrebbe dunque uno straordinario effetto di deflazione carceraria. La società, in tutte le sue articolazioni, ivi comprese quelle istituzionali e giudiziarie, mostra nei confronti delle donne un tasso di fiducia umana maggiore che a sua volta aiuta a comprimere le tensioni discriminatorie. Una maggiore presenza delle donne è dunque un’efficace politica di sicurezza pubblica.
Chiunque sia straniero in una nazione lontana ha più difficoltà a integrarsi per oggettive condizioni di vita, per lo sradicamento dai propri affetti, per la mancanza di lavoro, per l’assenza di opportunità formative, educative o sociali per il gap linguistico.
Man mano che passa il tempo dal suo insediamento in Italia, una comunità esprime un minor numero di detenuti al proprio interno. Ciò accade in quanto quella comunità diventa parte integrante dell’economia e della società italiana. Aumenta la fiducia nei suoi confronti. Di conseguenza diminuisce il rischio per i suoi membri di finire in carcere. Gli ucraini hanno un tasso di detenzione più o meno identico a quello degli italiani. Poco superiore è il tasso di detenzione di moldavi, romeni, etiopi, ungheresi.
L’amministrazione penitenziaria non censisce la condizione di regolarità o meno degli stranieri detenuti. Questi compongono dunque un indistinto contenitore pari a circa il 34% della popolazione detenuta. Si dirà che vi è un gap significativo rispetto all’8% degli stranieri liberi presenti in Italia. Ossia in carcere vi è una loro sovra-rappresentazione. Ma se guardiamo agli stranieri regolari presenti negli istituti penitenziari italiani la percentuale si riduce drasticamente, ritornando a dati fisiologici. Dunque un’eventuale regolarizzazione sarebbe funzionale alla sicurezza del paese.
Infine, per spiegare la maggiore presenza degli stranieri nelle carceri va detto che nei loro confronti vi è un uso più massivo della custodia cautelare in carcere e una minore concessione di misure alternative a causa di minori disponibilità economiche, linguistiche, tecniche, sociali. Ogniqualvolta il legislatore prevede opportunità di misure detentive a più basso indice di custodialità gli stranieri hanno inevitabilmente meno chance. La discriminazione è nei numeri. Vediamo un esempio. Il legislatore ha cercato di portare fuori dalle prigioni intese in senso stretto le detenute madri. Ne restano in carcere oggi circa sessanta, di cui oltre la metà è di nazionalità non italiana. Una sovra-rappresentazione di mamme detenute che si spiega in quanto esse sono di etnia rom o sinti, oppure sono prive di domicilio regolare in quanto irregolarmente presenti nel territorio italiano.
Lo sguardo alla composizione socio-criminale della popolazione detenuta offre dunque argomenti a supporto della decostruzione di un’ideologia punitiva intrisa di tendenze razziste, così come l’ha definita coraggiosamente papa Francesco.
fonte: ETICAECONOMIA