La scuola e l’università pubbliche stanno correndo il rischio di subire una profonda riforma del tutto anti-democratica. Nelle segrete trattative di Veneto, Lombardia ed Emilia-Romagna con il governo nazionale vengono definiti in questi giorni gli accordi sulla concessione di autonomie regionali ulteriori – tra cui l’istruzione di ogni ordine e grado – rispetto a quelle già previste dalla Costituzione.
Un processo non trasparente, che dovrebbe portare il Parlamento a votare gli accordi in blocco, senza un adeguato dibattito e senza possibili modifiche parlamentari. La gravità di quanto avviene è ancora maggiore considerando la totale esclusione delle rappresentanze degli studenti e dei lavoratori da un confronto nel merito degli accordi. L’autonomia differenziata è innanzitutto questo: una riforma che ha effetti su tutto il Paese ma viene decisa da una stretta minoranza senza confronto democratico.
L’assenza di un confronto democratico è grave quanto i contenuti che potrebbero derivare dalle trattative. I contenuti non sono pubblici, ma possiamo comprendere la gravità della situazione dai termini della trattativa. Le richieste avanzate dalle Regioni, pur con forti differenze, hanno in comune la volontà di trattenere il prelievo fiscale del territorio regionale, evitando una redistribuzione delle risorse a livello nazionale.
Nel caso della scuola e dell’università ciò significa inasprire le disuguaglianze, purtroppo già presenti, tra Nord e Sud del Paese. Le condizioni del sistema di istruzione sono drammatiche su tutto il territorio nazionale, per via delle politiche di austerità e di riforme dell’istruzione che hanno ignorato i bisogni degli studenti; ma è indubbio che al Nord via sia una maggiore concentrazione di risorse destinate all’istruzione, mentre il Sud soffre di una cronica carenza di personale e finanziamenti per garantire un’offerta didattica di qualità.
L’emigrazione interna al nostro Paese, in gran parte determinata dagli studenti meridionali che si iscrivono ad atenei del Nord, è un sintomo particolarmente drammatico di questa disuguaglianza. L’autonomia differenziata che viene proposta va in direzione opposta alla necessità di assumere la questione meridionale come una questione nazionale, che interroga tutto il Paese sulla responsabilità dello Stato nel garantire ai cittadini del Meridione gli strumenti per uscire da una storica condizione di subalternità.
Tuttavia questo processo di autonomia non è nemmeno utile a far emergere le contraddizioni presenti nelle scuole e nelle università del Nord Italia, dove sono presenti gravi violazioni dei diritti come la presenza di edifici fatiscenti e la mancata garanzia delle borse di studio a tutti gli idonei. In realtà il governo e le Regioni dovrebbero mettere a disposizione delle studentesse e degli studenti le risorse necessarie ad attuare appieno le potenzialità delle forme di autonomia già previste dall’ordinamento in materia di istruzione.
Il progetto di un sistema formativo caratterizzato da un’offerta formativa unica garantita su tutto il territorio nazionale, con la possibilità di ampliare l’offerta formativa in connessione con le specificità sociali e produttive dei territori, si è schiantato sull’assenza dei finanziamenti pubblici necessari.
Gli stessi Livelli Essenziali delle Prestazioni a livello nazionale non sono mai stati approvati nonostante le numerose proteste degli studenti per le disparità nella garanzia del diritto allo studio sul territorio nazionale. La proposta di autonomia regionale differenziata prevede invece una forte frammentazione dell’offerta formativa, con un effetto distorsivo ancora maggiore rispetto a quello a cui abbiamo assistito.
Siamo di fronte ad un attacco alla solidarietà nazionale, che risulta coerente con l’egemonia culturale del cosiddetto “sovranismo”. Occorre guardare al di là della mera trattativa in corso, per riconoscere i rischi di un processo politico che ha radici profonde e può arrivare ad effetti ancor più pericolosi per i diritti dei cittadini. Il nostro Paese è afflitto da una profonda frammentazione sociale e milioni di cittadini provano paura per il proprio futuro.
Dopo una lunga crisi economica, ampie fasce della popolazione hanno visto peggiorare la propria condizione economica, anche nel Nord Italia, mentre il Censis con il suo Rapporto annuale dichiara che la maggioranza dei cittadini – il 73% tra gli studenti – non percepisce alcun miglioramento della propria condizione nel futuro. Questa situazione ha portato a una profonda frustrazione diffusa nel Paese, per cui il Censis utilizza il termine di “società incattivita”, terreno fertile per discorsi politici fondati sul particolarismo territoriale e sul conflitto tra diversità, piuttosto che sulla cooperazione e la solidarietà.
La classe dirigente che ha governato il Paese negli ultimi decenni è responsabile di questa crisi sociale e culturale, in particolare della progressiva disaffezione della cittadinanza verso le istituzioni. Lo Stato non è più garante di diritti e benessere, ma opera sempre maggiori tagli alla spesa sociale, prosegue nella negazione di diritti sociali e civili e nella tutela di privilegi, a causa dell’indirizzo politico dei Governi che non hanno tutelato la condizione dei cittadini. In assenza di fiducia nel ruolo dello Stato, per tanti cittadini il rifugio nelle istituzioni regionali e locali, percepite come più vicine alle proprie necessità, è considerato una soluzione alla totale assenza di una rappresentanza politica dei propri bisogni.
L’autonomia differenziata proposta dalle Regioni del Nord si inserisce in una complessiva crisi della democrazia rappresentativa, ormai incapace di garantire la coesione sociale e anche la stessa coesione giuridica degli Stati. La rivendicazione di “autonomia” non deve essere interpretata come un concetto neutro, ma confrontata con la fase storica e il processo politico che ne sta alla base. Così si può notare che la Lega ha costruito una narrazione egemonica su una necessità reale dei cittadini, anche coloro che non sono assolutamente ricchi e in realtà non traggono beneficio dalle politiche del partito della flat-tax. Questa necessità è la riappropriazione di potere decisionale per chi è stanco di subire la delusione delle proprie aspettative di maggiore benessere e stabilità socio-economica.
Il localismo della Lega elude la contrapposizione tra soggetti sociali, attribuendo la crisi del Nord alla solidarietà nazionale, piuttosto che alla concentrazione di ricchezza e potere nella minoranza più ricca: una ricchezza sottratta tanto ai cittadini del Sud quanto a quelli del Nord, in una dinamica che la stessa Lega vorrebbe approfondire con la flat-tax. La classe politica al governo delle Regioni che richiedono autonomia non è del resto alternativa a quella che ha governato il Paese negli ultimi vent’anni, ma rappresenta gli stessi interessi privati che hanno portato all’attuale situazione socio-economica, anche nelle politiche regionali.
Alcune Regioni del Sud annunciano richieste di autonomia, ad ulteriore conferma del fatto che la dimensione centrale del conflitto in corso non è geografica ma sociale. Nella crisi di fiducia verso lo Stato e nella ricerca di protezione dalle istituzioni regionali e locali, al posto di una maggiore partecipazione dal basso alle decisioni politiche, si sta determinando una de-centralizzazione del potere decisionale in mano a pezzi di classe dirigente locale, che mai hanno rappresentato concretamente un’alternativa politica ai ghoverni nazionali, ma anzi ne sono conniventi.
Sostanzialmente la frammentazione formale del processo decisionale non è un ostacolo ai meccanismi che hanno subordinato le politiche pubbliche agli interessi della speculazione e dello sfruttamento. Invece ha effetti profondamente negativi per la maggioranza della popolazione, perché indebolisce la coesione dei soggetti sociali esposti a quegli stessi meccanismi, frammentando la rivendicazione politica e l’organizzazione delle lotte.
L’autonomia differenziata a guida leghista non può essere contrastata solamente con un richiamo a principi che sono stati colpevolmente svuotati di senso, né eludendo la sfida di costruire una narrazione alternativa sul superamento della crisi democratica in cui ci troviamo. La questione della redistribuzione di potere deve essere affrontata su basi alternative e maggioritarie, rivendicando una nuova centralità dei territori e dei corpi intermedi nel definire l’indirizzo politico del Paese ad ogni livello.
L’autonomia può essere declinata non esclusivamente su direttrici geografiche, ma innanzitutto sulle disuguaglianze di classe che attraversano la nostra società e presentano anche caratteristiche diversificate tra i territori, rivendicando la piena partecipazione dei cittadini per ottenere risposte materiali ai propri bisogni. Non può esservi miglioramento del benessere collettivo senza passare dalla realizzazione delle rivendicazioni dei soggetti sociali e dalla valorizzazione del loro punto di vista nell’organizzazione dei servizi pubblici, ad ogni livello: dalla definizione dell’indirizzo politico, alla programmazione, fino all’attuazione delle politiche pubbliche. L’autonomia che ci serve è fondata sulla democrazia partecipativa, non sulla frammentazione dell’Italia.
L’autonomia differenziata va fermata al più presto, criticando il rischio di ulteriore sperequazione e frammentazione del Paese, riconoscendo le disparità dei territori e rivendicando politiche di convergenza. Occorre anche evitare di favorire la polarizzazione che avvantaggia la strategia degli stessi promotori del provvedimento, come se fosse in gioco realmente una contrapposizione tra cittadini del Nord e del Sud, piuttosto che una contrapposizione tra alto e basso della piramide sociale.
Per decostruire la narrazione leghista occorre un discorso politico condiviso tanto al Nord quanto al Sud Italia, ma radicato nelle fasce della popolazione che più hanno sofferto, come noi studenti. Non ci serve un’autonomia che crea disuguaglianze, vogliamo pari diritti sociali e una democrazia partecipativa capace di realizzare le nostre rivendicazioni.
*Rete della Conoscenza
fonte: SBILANCIAMOCI.info