Ancora oggi la vecchia associazione tra “malattia mentale” e “pericolosità” troppo spesso si ritrova nei mass media e negli stessi eventi di cronaca, come recentemente avvenuto anche ad Avezzano in occasione dell’apertura temporanea di un Centro di Salute Mentale nei pressi di una scuola con i timori delle mamme e le “rassicurazioni” della Asl
Sono passati ormai oltre 40 anni dalla legge 180 del 1978 che ha abrogato la legge manicomiale n. 36 del 1904, ed in particolare le prime parole dell’articolo 1: “debbono essere custodite e curate nei manicomi le persone affette per qualunque causa da alienazione mentale, quando siano pericolose a se’ o agli altri…”.
Da allora lo stesso trattamento sanitario obbligatorio, normato dagli articoli 33, 34 e 35 della legge 833 del 1978 che ha recepito la 180, è previsto in particolare solo se esistano alterazioni psichiche tali da richiedere urgenti interventi terapeutici e se gli stessi non vengano accettati, senza mai far riferimento al concetto di pericolosità.
Eppure ancora oggi la vecchia associazione tra “malattia mentale” e “pericolosità” troppo spesso si ritrova nei mass media e negli stessi eventi di cronaca, come recentemente avvenuto anche ad Avezzano in occasione dell’apertura temporanea di un Centro di Salute Mentale nei pressi di una scuola.
Si tratta, insieme ai concetti di inguaribilità, improduttività, ereditarietà e cervello malato, di pregiudizi senza fondamenti scientifici che alimentano lo stigma per chi soffre di gravi disturbi psichici, aumentando le disuguaglianze e danneggiando i possibili percorsi di riabilitazione
In particolare vorrei riportare alcune delle considerazioni sulla pericolosità che ho recentemente scritto nell’articolo “Disuguaglianze e salute mentale” (1).
Nella comunicazione dei mass media si tende ad attribuire subito alla malattia mentale un delitto efferato, creando una distorsione emotiva – cognitiva nel cittadino che rimane colpito dal titolo, suscitando una convinzione associativa tra disturbo psichiatrico e violenza. Ovviamente spesso, con gli approfondimenti delle storie, emerge che la malattia mentale non c’entra, ma il danno è fatto.
Interessante è lo studio riportato nel manuale operativo per la riduzione dello stigma e della discriminazione “Schizofrenia e cittadinanza” dell’Associazione Mondiale di Psichiatria” dal quale risulta, dopo aver esaminato 1371 programmi televisivi, che “i personaggi valutati più negativamente, i cattivi, sono proprio i malati mente” (2).
Eppure, da una attenta analisi della letteratura scientifica, si può affermare che non ci sono risultati conclusivi certi di una associazione tra malattia mentale e violenza (1).
Fondamentale è stato lo studio longitudinale “National Epidemiologic Survey on alcohol and related conditions” (3) che ha visto arruolati circa 35.000 persone negli USA, dal quale risulta che sono predittori di violenza in particolare la giovane età, essere maschio, avere un basso livello scolastico, una storia di violenza, una detenzione giovanile, avere divorziato ed essersi separato nell’anno precedente. Non risulta nessuna significatività statistica che indichi la schizofrenia, la depressione maggiore e i disturbi bipolari, da soli come predittori di violenza.
Le persone con gravi disturbi mentali, pur avendo una incidenza di comportamenti violenti lievemente più alta, raggiunge un significativo rischio più alto di violenza esclusivamente con associata dipendenza o abuso di sostanze.
Comunque anche nel caso di violenza da parte di una persona con gravi disturbi psichici è molto importante la storia di ciascuno, ed in particolare i fattori di rischio rilevati quali “la carenza di una rete famigliare e sociale di aiuto, essere stato abusato da minore, essere vissuto in un ambiente domestico e di quartiere violento, l’aver subito violenza fisica o psicologica, abusare o dipendere da alcol o droghe, aver avuto forti traumi emotivi, come aver perso il lavoro ed aver divorziato”.
Così come risulta da un interessante studio svedese del 2013 (4) “certamente chi soffre di disturbi mentali è più probabile che sia vittima che non attore di violenza”.
Concludendo, così come ho affermato nel mio articolo (1), “i dati dello studio National Epidemiologic Survey on alcohol and related conditions dimostrano che una persona con gravi disturbi mentali, senza abuso di sostanze e senza una storia di violenza, ha le stesse probabilità di essere violento nei successivi tre anni di una persona della popolazione generale”.
Una considerazione che nasce dalle evidenze scientifiche, da diffondere in tutti i luoghi virtuali e reali dove lo stigma verso le persone con disturbi mentali rischia di danneggiare l’autostima, di creare un etichettamento che può rappresentare anche un ostacolo insormontabile all’accesso ai servizi.
Per queste ragioni i Dipartimenti di Salute Mentale non solo dovrebbero centrare il loro lavoro coniugando recovery e diritti di cittadinanza, ma dovrebbero anche portare avanti iniziative culturali di prevenzione contro i pregiudizi nel territorio ed in primo luogo nelle scuole.
Massimo Cozza è Direttore del Dipartimento di Salute Mentale ASL Roma 2
(1) Cozza M “Disuguaglianze e salute mentale”, NÓOς – Aggiornamenti in psichiatria, Vol 24 N 2, 2018, pag. 79 – 96, Il Pensiero Scientifico Editore.
(2) Casacchia M, Pioli R, Rossi G “Schizofrenia e cittadinanza”, Roma, Il Pensiero Scientifico Editore.
(3) Elbogen EB, Johnson SC “The intricate link between violence and mental disorder: results from the national epidemiologic survey on alcohol and related conditions”, Arch Gene Psychiatry 2009, 66, pag. 152 – 161.
(4) Crump C, Sundquist K, Winkleby MA, Sundquist J “Mental disorders and vulnerability to homicidal death: swedish nationwide cohort study”, BMJ 2013, 346: f557.
Fonte: Quotidiano Sanità