Il reddito di cittadinanza viene presentato nel Decreto Legge 4/19come una «misura fondamentale di politica attiva del lavoro a garanzia del diritto al lavoro, di contrasto alla povertà, alla disuguaglianza e all’esclusione sociale […] mediante politiche finalizzate al sostegno economico e all’inserimento dei soggetti a rischio di emarginazione nella società […] ritenendo la straordinaria necessità e urgenza di prevedere la semplificazione del sistema di assistenza sociale al fine di renderlo certo ed essenziale con l’obiettivo di una ridefinizione del modello di benessere collettivo». Quindi sarà questo lo strumento che d’ora in avanti verrà usato per il contrasto alla povertà, alla disuguaglianza e all’esclusione sociale?
Dalle premesse sembra proprio di sì e infatti poco più oltre si specifica chiaramente che il reddito di cittadinanza è «il livello essenziale delle prestazioni nei limiti delle risorse disponibili».
Attenzione, che questo è un punto fondamentale, perché se finalmente vengono definiti i livelli essenziali delle prestazioni di contrasto alla povertà, alla disuguaglianza e all’esclusione sociale, subito dopo si specifica chiaramente che tali prestazioni sono garantite «nei limiti delle risorse disponibili».
Quindi: a) sei considerato “povero” a rischio di “emarginazione” ed “esclusione sociale” solo se rientri nei requisiti del reddito di cittadinanza; b) questa è l’unica misura di contrasto alla povertà, alla disuguaglianza e all’esclusione sociale che lo Stato Italiano garantirà, d’ora in avanti, disponendo di limitate risorse di bilancio.
La “povertà” viene definita in questo Decreto come la conseguenza di un mancato accesso al lavoro. Questo assunto, però, non è corretto. È vero infatti che il lavoro è un potentissimo veicolo di inclusione sociale e che rappresenta le condizioni minime per un’uguaglianza spontanea e non imposta, ed è potenzialmente un efficace strumento di contrasto all’impoverimento e, soprattutto, alla cronicizzazione della povertà nella popolazione. Ma la “mancanza di lavoro” non è sicuramente l’unico fattore essenziale che definisce una condizione di estrema fragilità sociale, economica e lavorativa. La disabilità, infatti, rappresenta un elemento importantissimo, che non è possibile trascurare quando si parlano di Livelli Essenziali! E in questo Decreto la disabilità non solo è stata trascurata, ma in alcuni articoli appare addirittura un elemento discriminanteall’accesso ai Livelli Essenziali delle Prestazioni Sociali.
E questo perché è impossibile non notare che il Decreto non rispetta una clamorosa e recente Sentenza del Consiglio di Stato – mi riferisco alla Sentenza 842/16 sull’ISEE (Indicatore della Situazione Economica Equivalente) – che ha chiarito, nel più piccolo dettaglio, come considerare tutti i supporti erogati dallo Stato per far fronte a una condizione di disabilità non possa in alcun modo essere incluso nella valutazione del reddito, sia personale che familiare, in quanto tali supporti rappresentano ciò che la Costituzione Italiana definisce come «pari dignità sociale ed uguaglianza davanti alla legge».
Quindi, come mai tale assunto, così chiaramente ribadito da esser perfino citato in entrambi i programmi elettorali dei partiti che compongono l’attuale Governo ed essere addirittura trascritto nel Contratto di Governo, non è stato rispettato?
Non si può, davanti a un’evidenza così eclatante, non ipotizzare un’intenzionale volontà di limitare l’accesso delle persone con disabilità e dei loro familiari ai Livelli Essenziali delle Prestazioni Sociali.
I nuclei familiari che hanno uno o più componenti con disabilità, d’ora in avanti – e non a caso – verranno definite famiglie non autosufficienti, perché è proprio in questo Decreto che viene sancita la “famiglia” come unica misura, non solo per la valutazione delle condizioni di accesso ai Livelli Essenziali, ma soprattutto come unico criterio di individuazione del beneficiario, che non è più il singolo ma l’intero nucleo familiare.
L’individuazione del beneficiario “famiglia” è sicuramente molto più corretta per definire i Livelli Essenziali, ma proprio per questo non si può fingere di non accorgersi come, in una misura che ha lo scopo di contrastare le condizioni di fragilità economica e sociale, proprio quelle stesse condizioni di fragilità vengano di fatto ignorate! Ed invece è esattamente ciò che avviene in questo Decreto. Perché un nucleo familiare che vive la disabilità e la malattia di uno o più di suoi componenti è un nucleo fragile, a prescindere dalle condizioni reddituali. E in questi Livelli Essenziali addirittura i supporti erogati per far fronte alla disabilità vengono considerati incrementi reddituali!
Nell’articolo 2, comma 6, infatti, si specifica chiaramente che, per rientrare nei Livelli Essenziali di contrasto alla povertà, all’esclusione sociale e alla disuguaglianza, oltre all’ISEE saranno presi in considerazione tutti i «trattamenti assistenziali in corso di godimento da parte dei componenti il nucleo familiare, fatta eccezione per le prestazioni non sottoposte alla prova dei mezzi».
Non stiamo solo parlando della pensione di invalidità civile ma, per esempio, anche dell’assegno di cura e dei caregiver erogato a quei nuclei familiari che hanno al loro interno una o più persone con disabilità molto gravi o gravissime. Una doppia penalizzazione che non ha alcuna ragione di esistere, soprattutto se si sta parlando dei Livelli Essenziali… È come se nei Livelli Essenziali di Assistenza Sanitari (LEA) venissero penalizzati, per l’accesso alle misure sanitarie, i malati cronici con le patologie più gravi.
Come si può discriminare al punto da considerare lo svantaggio addirittura come un vantaggio?
E infatti nello stesso Contratto di Governo (punto 16, Ministero per le disabilità) si affermava convintamente che «i trattamenti assistenziali, previdenziali ed indenni tari, incluse carte di debito, a qualunque titolo percepiti da amministrazioni pubbliche, qualora attinenti a condizione di disabilità, sono esclusi “tassativamente” dal calcolo dell’Isee o di altri indicatori reddituali necessari per accedere ad agevolazioni e benefici».
Quindi non può essere casuale questa deliberata valutazione dei supporti erogati in base alla disabilità, come se fossero uno…”stipendio” disponibile nella ricchezza familiare.
Ma non è, purtroppo, l’unico elemento di esclusione delle famiglie non autosufficienti dal Decreto che instaura i Livelli Essenziali delle Prestazioni Sociali (LivEAS: Legge 328/00). Per esempio non esistono “scale di equivalenza” che segnalino in qualche modo la presenza di persone con disabilità nel nucleo familiare.
Ma cosa sono le “scale di equivalenza”? Sono degli strumenti di calcolo statistico che vengono usati proprio per segnalare una condizione di particolare fragilità reddituale, come la presenza di minori che, appunto, impegnano il nucleo familiare nell’assistenza e non portano reddito, esattamente come avviene spesso in presenza della non autosufficienza di un componente del nucleo. Ebbene, in questo Decreto i minori sono segnalati, le persone con disabilità no.
Quindi la mancata produzione di reddito da pare di una persona non autosufficiente è “statisticamente” rilevata quasi come una… non volontà di produrre reddito.
Ed infatti ecco una nuova indicazione penalizzante non solo per le persone con disabilità che hanno “poca voglia di lavorare”, ma per tutta l’intera famiglia e, soprattutto, per i caregiver familiari.
L’articolo 2, comma 3 del Decreto chiarisce che «non hanno diritto al reddito di cittadinanza i nuclei familiari che hanno tra i componenti soggetti disoccupati a seguito di dimissioni volontarie»: escludere quindi dal reinserimento lavorativo chi si è licenziato volontariamente ha, per una famiglia non autosufficiente un solo significato, ossia escluderla dall’accesso ai Livelli Essenziali delle Prestazioni Sociali.
Questa è, di norma, la condizione delle donne familiari caregiver impegnate nell’assistenza, perché costrette dalla scarsa offerta di servizi assistenziali ad abbandonare il lavoro, attivandosi nella sostituzione dello Stato per garantire sopravvivenza e vita dignitosa al proprio congiunto con disabilità. Ma è anche la condizione che troppo spesso ricorre pure per gli altri membri della famiglia e per la stessa persona con disabilità che, oltre a subire frequentemente il mobbing all’interno del proprio ambiente di lavoro, hanno accesso esclusivamente a quelle tipologie di lavoro denominate “lavoro povero” ovvero con un con un salario talmente modesto da non permettere di superare la soglia di povertà.
Motivo per cui “il gioco non vale la candela” perché una famiglia non autosufficiente deve mettere in conto l’esborso per il trasporto, a causa dell’inaccessibilità dei mezzi pubblici, l’esborso per la sostituzione assistenziale non solo durante le ore lavorative, ma anche per il tempo impiegato per andare e tornare dal lavoro, e ciò che viene perso in termini reddituali in seguito alle prolungate assenze dal lavoro che purtroppo coesistono con la condizione di disabilità.
Sono talmente note le condizioni di perdita e abbandono del lavoro da parte delle famiglie caregiver che persino il Comitato ONU sui Diritti delle Persone con Disabilità e la stessa Unione Europea hanno dato chiare indicazioni in tal senso. Senza contare le Sentenze della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo di Strasburgo, che ne hanno sancito la violazione dei diritti umani.
Ma in Italia, a quanto pare, le famiglie impegnate ventiquattr’ore su ventiquattro nell’assistenza dei propri congiunti sono identificate alla stessa maniera dei “fannulloni”o, peggio, di chi vive di lavoro nero, una condizione che non è di certo concessa a un familiare caregiver!
Procediamo. Nell’articolo 3, comma 15 del Decreto si prevede una decurtazione del beneficio se non consumato interamente ogni mese: e se il mancato consumo derivasse da un ricovero in ospedale o in un centro di riabilitazione intensiva?
Durante il ricovero, infatti, dove spesso la famiglia caregiver accompagna la persona con disabilità – specie se si tratta di un bambino o di una persona con disabilità cognitiva -, diminuiscono naturalmente alcune spese, da quelle di elettricità (si pensi al consumo degli apparecchi elettromedicali, o le spese di riscaldamento e refrigerio indispensabili a persone affette da gravi patologie) o le spese alimentari (in particolare in presenza di persone che sono costrette ad accedere esclusivamente a determinati tipi di alimenti) o di trasporto… Senza nominare – perché dovrebbero essere ovvie ma a quanto pare non lo sono – le spese farmaceutiche e di assistenza.
Il diminuito consumo del mese di ricovero, inoltre, non è infrequente che coincida con l’aggravamento delle condizioni della persona con disabilità, ed è impossibile ignorare che questa condizione finisce per ripercuotersi proprio al rientro a casa, dove spesso è necessario un maggiore esborso economico per far fronte a urgenti spese assistenziali o acquisti di presìdi e/o adattamento delle abitazioni.
E quindi, non sembra quasi una “punizione” questa decurtazione che avviene nelle famiglie non autosufficienti, proprio nel momento in cui avrebbero, invece, necessità di un maggior sostegno?
Ma arriviamo a quello che ci sembra il punto più vessante per le famiglie non autosufficienti: il lavoro congruo.
È vero che, apparentemente, il Legislatore sembra avere avuto un atto di clemenza proprio verso queste famiglie, ma il diavolo si nasconde nei dettagli…
Sull’offerta di lavoro “congrua” viene prevista la possibilità per il caregiver familiare di declinare, senza perdere il beneficio economico, le proposte lavorative che il suo ruolo assistenziale non gli permetterebbe di affrontare, ma, attenzione, in questo Decreto si parla di nucleo familiare e anche se è consueto che le famiglie di persone non autosufficienti siano spesso composte da due persone (la persona con disabilità e il suo caregiver familiare) càpita – più frequentemente di ciò che ritiene il Legislatore – che nella famiglia siano presenti dei fratelli, dei coniugi e dei figli.
Gli stessi caregiver familiari – magari in possesso anche di competenze elevate, che mal collimano con un ruolo assistenziale per ventiquattr’ore su ventiquattro alla quale si sono trovati loro malgrado costretti, proprio dalla negligenza istituzionale nell’assistenza verso il proprio congiunto – avrebbero diritto, pur mantenendo il loro ruolo di cura, esattamente come tutti gli altri cittadini italiani, ad accedere a un lavoro, come ne hanno diritto tutti i componenti di una famiglia non autosufficiente. E questo anche per tirarsi fuori da una condizione di grave indigenza che non può risolversi esclusivamente con una “beneficenza Statale”, tanto più se – e lo si sottolinea chiaramente, proprio perché si è ben consci come questo “particolare” influisca gravemente sulle condizioni di dignità sociale di queste famiglie – è vincolata alla disponibilità di bilancio.
Ma c’è di più ancora: è importante rilevare un aspetto saliente della “congruità” dell’offerta di lavoro: infatti, viene ritenuta congrua un’offerta di lavoro che permetta un guadagno delineato in base all’ultima retribuzione percepita. Com’è possibile, tuttavia, ignorare il fatto che si sta parlando di una platea di persone le quali, proprio per la condizione di fragilità sociale dovuta al fatto che in famiglia c’è un membro con disabilità, e stata costretta a un “lavoro povero” ovvero quel lavoro che, frammentario, part time e a bassa retribuzione, produce redditi talmente insufficienti, da finire per risultare inutili in un contesto come quello di una famiglia non autosufficiente?
Quindi l’“offerta congrua” potrebbe prevedere sia una discreta lontananza, sia uno stipendio talmente basso, tanto da costringere l’intero nucleo familiare a rimetterci? Che offerta congrua è? Il salario deve rappresentare realmente un miglioramento della condizione economica delle famiglie che altrimenti non solo non usciranno mai dalla condizione di povertà, ma cronicizzeranno la loro condizione.