Il frutto migliore della legge sul biotestamento è il tentativo di ricondurre la terminalità all’interno di un rinnovato umanesimo medico.
Al di là del diritto delle persone a quella che ciascuno considera la propria dignità di vita, al di là del diritto del medico a agire secondo la sua personale coscienza, resta una questione su cui meditare.
Per trasformare in pratica quotidiana le norme sulle direttive anticipate di trattamento occorrerà molto tempo, come per ogni cambiamento culturale. Nonostante che il clima sociale intorno alla fase terminale della vita sia cambiato, tuttavia c’è ancora molto da fare per superare illusioni e fraintendimenti sui poteri della medicina.
Accade ancora che, dopo aver tentato di prolungare la vita con ogni sorta di sofisticatissimi rimedi, si finisca col ricoverare il morente in qualche ambiente asettico, lontano dai suoi cari, affidato al tocco meccanico degli strumenti, collegato al mondo esterno da tubi e cannule, con un atteggiamento futile vissuto dalla gente come disumano.
Quotidiano Sanità ha pubblicato alcuni toccanti interventi su questo tema. Ricordo quello di Marcella Gostinelli, estremamente significativo nel descrivere la solitudine del morente in ospedale e, nello stesso tempo, il senso di frustrazione del personale. Eppure il medico dovrebbe accompagnare la persona dalla nascita alla morte, che non è altro che la conclusione, non fallimentare ma emotivamente appagante, della relazione umana.
Il Codice Deontologico non elude il problema. Art. 16: “Il medico… non intraprende né insiste in procedure diagnostiche e interventi terapeutici clinicamente inappropriati ed eticamente non proporzionati, dai quali non ci si possa fondatamente attendere un effettivo beneficio per la salute e/o un miglioramento della qualità della vita. Il controllo efficace del dolore si configura, in ogni condizione clinica, come trattamento appropriato e proporzionato. Il medico che si astiene da trattamenti non proporzionati non pone in essere in alcun caso un comportamento finalizzato a provocare la morte”. Art. 26: “Il medico… registra il decorso clinico assistenziale nel suo contestuale manifestarsi o nell’eventuale pianificazione anticipata delle cure nel caso di paziente con malattia progressiva, garantendo la tracciabilità della sua redazione”.
Da questo punto di vista la parte più importante della legge n. 219/17 risiede nella pianificazione anticipata delle cure. Un tema che merita la massima attenzione. Nell’evoluzione di molte affezioni si può individuare un livello di gravità che fa porre al medico la domanda: ti meraviglieresti se il paziente morisse entro un tempo ben definito? È la fase “end stage” delle grandi insufficienze d’organo, in cui occorre avviare un colloquio con il paziente e i familiari per pianificare le scelte di cura ed evitare inutili accanimenti e ricoveri penosi.
Questa è la medicina di iniziativa il cui motore non può essere altri che il medico generale. La vera palliazione è la presa in carico fino dal primo incontro col medico generale, cui spetta di stabilire un processo comunicativo che modifichi l’atteggiamento di chi è coinvolto nell’assistenza, determinando un indirizzo clinico di continuità dinamicamente evolutiva, rispettando il vissuto, le credenze, la spiritualità del paziente. È tempo di ripensare una cultura medica fondata su cure olistiche da affiancare ai trattamenti ordinari, commisurate all’esigenze del paziente, condivisa tra tutti gli attori coinvolti.
Scelte non facili verso percorsi appropriati, senza che prevalga quel falso senso di onnipotenza o di sconfitta che porta alla futilità terapeutica. Il Consiglio Sanitario Toscano così si è espresso con un documento (parere n. 97/14). “Questa proposta deve coinvolgere tutti gli operatori che partecipano al processo di cura nelle fasi terminali della vita, costituendo un momento di condivisione e un nuovo modo di trattare il malato insufficiente cronico, stimolando una diversa cultura decisionale e iniziando un percorso formativo che conduca a elaborare scelte non sempre facili verso percorsi più appropriati: alternativi a quelli intensivi, proporzionati alla prognosi e maggiormente finalizzati al confort del paziente, utili per la presa in carico dei suoi familiari, coerenti con i bisogni globali valutati alla luce di una prognosi realistica che tenga conto sia della clinica che della globalità della persona e delle sue preferenze, senza mai precludere nuovi orizzonti di cura in rapporto a possibili modifiche del quadro clinico e alla disponibilità di nuovi mezzi di cura”.
“Contra vim mortis non est medicamen in hortis” sostiene la Scuola salernitana. Quando la medicina non modifica più il decorso naturale della malattia occorre impostare la relazione col paziente e i familiari in modo da garantire il rispetto di ciò che ciascuno considera la sua dignità di vita. La legge francese (17/3/2015) ha ben precisato il diritto del paziente a rifiutare le cure e l’obbligo del medico di rispettarne la volontà e di alleviare la sofferenza fino alla sedazione terminale. “Il medico pone in atto tutti i trattamenti sedativi per affrontare la sofferenza del malato terminale, anche se possono avere l’effetto di accorciare la vita”. “Il medico salvaguarda la dignità del morente e assicura la qualità della fine della sua vita.”
Infine la Suprema Corte del Canada, con sentenza del febbraio de 2016, ha legalizzato “the physician-assisted dying”. La società sta cambiando, osserva la Corte, e presto l’aumento della popolazione anziana, con la conseguente incidenza di patologie croniche, porrà con forza la questione della correttezza legale e deontologica della fine della vita. Negli ultimi decenni, in alcuni paesi, questo problema è stato affrontato senza che si manifestasse il temuto “sentiero scivoloso”. Ormai sembra inevitabile, sostiene la Corte, considerare la morte assistita come uno standard di cura in determinate situazioni, quando la richiesta del paziente nasce da una situazione intollerabile e priva di dignità.
Il medico non deve mai procurare la morte, questo è un dato certo. Tuttavia l’incremento della terminalità nelle grandi insufficienze d’organo, aumenterà nella società l’opposizione al diniego del diritto a una morte dignitosa. Alcuni Magistrati, e lo dimostra lo svolgimento del processo per la morte del Dj Fabo, percepiscono il mutato clima culturale e sembrano avvertire la necessità di un diritto più idoneo a rispondere alle diverse esigenze dei cittadini in una società complessa. Un diritto capace di cogliere e non imporre le scelte individuali sulla qualità della propria vita. Il frutto migliore di questa legge è il tentativo di ricondurre la terminalità all’interno di un rinnovato umanesimo medico; al di là del diritto delle persone a quella che ciascuno considera la propria dignità di vita, al di là del diritto del medico a agire secondo la sua personale coscienza, resta una questione su cui meditare.
L’assistenza alla morte è parte della cura del paziente e, allora, dovremmo recuperare il significato etimologico del lemma “eutanasia”, cioè di “buona morte”, fine serena e meno sofferta possibile, un prendersi cura che è compito umano e professionale del medico.
Antonio Panti
Componente della commissione deontologica FNOMCeO
fonte: https://www.quotidianosanita.it/studi-e-analisi/articolo.php?articolo_id=58089