Sanità integrativa: il vero nodo è l’appropriatezza delle prestazioni. di Marco Geddes da Filicaia

Gentile direttore,

in questi giorni si è tornati a discutere di Sanità integrativa sia su Quotidiano sanità, con il commento al Rapporto della Fondazione Gimbe e la pubblicazione della lettera del CEO di Rbm, sia su altri organi di informazione. Ulteriore occasione di riflessione è stata la presentazione del 2° Rapporto Censis – Eudaimon sul welfare aziendale a Roma, il 30 gennaio, con la presenza di Confindustria e Sindacati confederali. Il welfare aziendale interessa ovviamente molteplici aspetti e la sanità ne è un tassello, seppure rilevante, all’interno di un processo normativo e contrattuale che ha motivazioni e radici più ampie; tuttavia anche in tale dibattito sono emersi spunti di riflessione sul cosiddetto “secondo pilastro” in sanità.

Considerata la molteplicità degli interlocutori mi limito ad alcune osservazioni dettate per lo più dal fatto che risulta difficile individuare un’area di convergenza fra i diversi interventi. Al fine di non creare equivoci argomento questa affermazione: con “area di convergenza” non intendo, ne auspico in particolare, che siano definite proposte comuni, ma semplicemente individuate le questioni più rilevanti su cui portare elementi, pur contrapposti, di analisi.

Il Rapporto GIMBE mi pare si sia prefisso l’obiettivo di fare il punto sul dibattito in corso su tale tematica e portare elementi di chiarimento – anche con fini per così dire “didattici” – sugli andamenti di spesa, sulla composizione dell’out of pocket, sulla normativa e, di non poco conto, sulla terminologia utilizzata dai diversi autori e nei diversi documenti per definire l’articolazione dei Fondi e delle polizze assicurative. Questa, la parte descrittiva, che è largamente prevalente del Rapporto (33 pagine su 36, con 83 riferimenti bibliografici), e che  mi sembrava difficilmente oggetto di “competitiva aggressione”, ma eventualmente di qualche precisazione qualora un interlocutore abbia documenti indipendenti ed ufficiali da contrapporre, consapevole peraltro che tale materia non si avvale di ampie verifiche e di ricerche (complessa anche l’accessibilità all’anagrafe ministeriale, carente di  dati sui contributi versati dagli iscritti, sui bilanci etc.) come il problema meriterebbe.

Seguono tre pagine di Proposte per un riordino normativo che, proprio per la loro caratteristica “soggettiva” dovrebbero e potrebbero sollevare osservazioni e commenti. Il GIMBE avanza proposte meditate e per lo più condivisibili. Su alcune ho invece perplessità, peraltro spesso discusse nei dibattiti sulle politiche di welfare. Ne accenno a due fondamentali:

1) L’ipotesi di “sfoltire” i LEA secondo un metodo “evidence & value – based” è problematica a cui, da tempo, il GIMBE dedica una riflessione accurata. Tale proposta può trovare però altri sbocchi: iniziative sull’appropriatezza, formazione dei medici, definizione di linee guida, individuazione di priorità negli obiettivi aziendali. In altri termini sarebbe auspicabile affidare tale percorso ad una applicazione del binomio evidenza-etica nella pratica professionale. Il tradurlo, come prospetta il GIMBE, in una cancellazione di prestazioni dai LEA, rivisti recentemente dopo molti anni, è ipotesi pericolosa: chi decide? Come evitare che il criterio sia solo la individuazione di un “pacchetto ghiotto” per le attività private? E poi, come scriveva Lorenzo Tomatis in Poverty and Cancer nel 1992: “Uno si può chiedere se le risorse per la salute sono inevitabilmente e irrimediabilmente scarse oppure se tale scarsità è una scelta politica. Nella nostra società l’imperativo del tornaconto condiziona e perfino domina le priorità di ricerca e di conseguenza il sistema di assistenza medica…”.

2) L’affidamento di prestazioni extra LEA, in modo non transitorio, a un sistema “mutualistico – assicurativo”, con agevolazioni fiscali, indebolisce l’attenzione, la pressione e quindi la possibilità di ampliare la copertura universalistica a prestazioni rilevanti quali, ad esempio, alcuni presidi (vista e udito), le cure odontoiatriche, etc..

Il Rapporto GIMBE è stato oggetto di una vivace contestazione (se così posso definirla), da parte del CEO di Rbm non solo su questo giornale ma anche su altri organi di stampa. La prima accusa rivolta al GIMBE è quella di essere degli “ortodossi del monoteismo del pubblico in Sanità”.

Nella nostra cultura (come diceva don Benedetto – cioè Croce – “non possiamo non dirci cristiani”) fin dall’inizio della tradizione patristica le accuse non sono state mai di ortodossia, ma piuttosto di eresia e come tali non si possono definire “eretiche” le posizioni espresse nel Rapporto. Anzi mi pare che le proposte GIMBE siano proprio rivolte – con qualche mia (da eretico) perplessità – ad affidare al settore dei Fondi, con relativa “protezione fiscale”, un ampio set di prestazioni rivedendo e riducendo quelle comprese nei LEA.

È poi necessario ricordare, a scanso di fake news, che il settore privato non si identifica con i Fondi e Assicurazioni, ma con un’ampia rete di operatori che gestisce il 20,4% dei posti letto, in continuo aumento percentuale rispetto a quelli pubblici, di (per fortuna!) 910.000 occupati di cui circa il 60% in ospedali e servizi sanitari e di una “produzione” che supera i 100 miliardi. Questo per ristabilire, agli occhi del lettore, il quadro di un Servizio sanitario in cui la presenza del privato non è certo limitata e boicottata da ipotetici “statalizzatori”, ma gioca un ruolo fondamentale.

Ma, in sintesi, quali sono le questioni su cui non vi è una convergenza di, eventuali opposte, documentate valutazioni?

La prima è il non trasferimento, nei sistemi assicurativi e nei Fondi, di una parte sostanziale dei premi in servizi e in prestazioni. Quali elementi vi sono a sostegno di tale affermazione? Su quali dati si fonda? Le spese di gestione complessive in base a quanto evidenziato sul sito www.ania.it, assommano – analogamente a quanto avviene nei sistemi assicurativi di altri Paesi –  a circa il 25%; la riassicurazione o accantonamento assomma al 20% e gli utili parrebbero, dai bilanci Rbm, superiori al 4% medio sugli ultimi 4 anni. Ciò risulta, ripetiamo, assolutamente in linea con i conseguenti costi (premi) dei sistemi assicurativi di varie nazioni, che sono aumentati nell’ultimo decennio in misura assai maggiore rispetto alla spesa per la sanità pubblica (tasse) e di quella in out of pocket. Vi sono dati, documenti, letteratura scientifica su altre realtà nazionali che contraddicono quanto qui esposto?

La seconda questione, a mio parere fondamentale e su cui amerei un confronto, è l’appropriatezza delle prestazioni. Nella lettera di Vecchietti su Quotidiano Sanità si afferma testualmente: “…i Fondi Sanitari e le Compagnie Assicurative nel nostro Paese non erogano trattamenti sanitari né sono autorizzati per legge a controllarne l’appropriatezza ma si limitano a garantire il risarcimento dei costi (ticket inclusi) sostenuti dai cittadini per le prestazioni sanitarie pagate di tasca propria”.

La dichiarazione mi ha, francamente, meravigliato (a dir poco) per tre ragioni:

1) L’amministratore di Rbm sa perfettamente che nelle offerte di “pacchetti” che la sua “Impresa” (come molte altre) offre, si specifica in maniera assai invitante, che sarà attuato il pagamento diretto alla struttura sanitaria o al professionista (e non il rimborso) nel caso che le prestazioni siano erogate da strutture convenzionate (puntualmente elencate nel sito).

2) L’amministratore di Rbm sa perfettamente che nelle offerte di “pacchetti” che la sua “Impresa” (come molte altre) offre, vi sono batterie di prestazioni per così dire “preventive” a cui si accede periodicamente, in base alla sottoscrizione di accordi di welfare aziendale, e che non necessitano di prescrizione da parte del medico curante. Si tratta, in sostanza, di prestazioni pre-pagate in base ai piani assicurativi previsti nel contratto di lavoro; prestazioni peraltro in larga parte non conformi con quanto indicato dalle più autorevoli linee guida internazionali

3) L’amministratore di Rbm forse non sa – ma sarebbe opportuno che lo sapesse – che una vasta letteratura scientifica e indagini a livello nazionale e internazionale evidenziano come l’appropriatezza sia dipendente da vari fattori: i sistemi retributivi, le modalità di rimborso, i controlli sui prescrittori, la formazione etc. etc.. Vale a dire la governance, che non è un dato indipendente dal “terzo pagante”.

Forse è possibile che la contrattazione di una massa critica di prestazioni, attraverso Fondi e Assicurazioni, calmieri i prezzi, come sostiene il professor Spandonaro, rispetto all’out of pocket. Anche questo è un dato che meriterebbe qualche elemento di documentazione. In alcune realtà in cui la presenza del Terzo settore in ambito sanitario è rilevante (penso alla Regione Toscana) ne dubito, dato che i prezzi di molte prestazioni risultano addirittura concorrenziali al ticket. E ancor più dubito che l’entità di eventuali risparmi sia compensativo rispetto ai costi di intermediazione e accantonamento. Il fatto è che molti interlocutori dell’attuale dibattito danno evidentemente per scontato (e talora auspicato) un progressivo decadimento e conseguente riduzione delle prestazioni garantite dal servizio sanitario pubblico e pertanto limitano il confronto a Fondi e Assicurazioni verso Out of pocket e non verso il SSN.

Resta infine totalmente disatteso un dibattito sui temi della frammentazione dei percorsi, dei controlli di qualità, dei volumi di attività, della appropriatezza del sistema conseguente alla diffusione di Fondi e forme assicurative; argomenti che dovrebbero essere oggetto di un confronto fra manager, economisti, clinici ed esperti di sanità pubblica.

Iniziativa che non vedo, attualmente, all’orizzonte.

Fonte: Quotidiano Sanità – Lettere al Direttore

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