Nel quarto trimestre 2018 l’Italia è entrata in una (mini) recessione. Ma al contrario di quello che dice il premier Conte, i dati su aspettative e investimenti aziendali dicono che il calo del Pil è stato in parte autoinflitto dal governo.
L’economia italiana in (modesta) recessione
Tanto tuonò che piovve. L’Istat ha confermato quanto atteso alla vigilia e cioè che – secondo una stima preliminare – l’economia italiana si è contratta per il secondo trimestre consecutivo rispetto al trimestre precedente. La qual cosa porta a concludere che l’Italia è in recessione in senso statistico (si dice così quando il valore del Pil depurato dalle componenti stagionali e al netto dell’inflazione scende per due trimestri consecutivi). Dal punto di vista sostanziale, tuttavia, non ha poi torto il ministro Giovanni Tria che, parlando dell’economia italiana “non vedo una recessione ma una stagnazione”. In effetti una sequenza come quella osservata di due numeri solo leggermente negativi (-0,1 nel terzo trimestre e -0,2 nel quarto trimestre) non sprofonda certamente il nostro paese in una seria spirale recessiva. Nei 44 trimestri che si sono succeduti da inizio 2008, di trimestri negativi ne abbiamo visti di ben più gravi: un quarto (undici) dei trimestri totali hanno evidenziato riduzioni del Pil trimestrale più grandi di 0,2 punti percentuali.
Rimane però il fatto che dopo 14 trimestri di crescita congiunturale consecutiva l’economia si è contratta nei due trimestri del secondo semestre 2018. Il peggioramento dei dati congiunturali ha progressivamente ridotto la crescita tendenziale (quella annua) fino a farle sfiorare lo zero: nel quarto trimestre siamo arrivati a un +0,1 per cento rispetto allo stesso trimestre del 2017, mentre nello stesso periodo del 2017 l’economia stava crescendo annualmente un po’ più dell’1,6 per cento, al ritmo di uno +0,3/+0,4 per cento trimestrale. Non sono bei dati.
Di chi è la colpa
Del resto sull’arrivo della recessione anche il premier Giuseppe Conte, parlando con un giorno di anticipo rispetto all’Istat, aveva manifestato la sua attesa di “un’ulteriore contrazione del Pil, nel quarto trimestre”. Con una postilla di spiegazione preventiva “Non dobbiamo girare la testa. Ma il dato positivo è che non dipende da noi ma dalla Cina e dalla Germania, che è il nostro primo Paese per l’export”.
Non tutte le affermazioni del premier sono però corroborate dai fatti. Sulla base dei dati disponibili si può certamente individuare una parte delle difficoltà dell’economia italiana con una più deludente dinamica dell’export. Dati alla mano, la crescita dell’export nei primi tre trimestri del 2018 rispetto allo stesso periodo del 2017 (il dato ufficiale del quarto trimestre arriverà solo ai primi di marzo) è stata di poco superiore all’1 per cento, con un picco negativo nel primo – non nel terzo – trimestre 2018. Il dato 2018 sfigura rispetto al +4,2 medio realizzato nel triennio 2015-17. Insomma, è vero: nel 2018 l’export ha smesso di trainare la ripresa. E lo ha fatto risentendo in modo particolare del parallelo rallentamento della crescita del Pil nei paesi dell’Eurozona (dove va a finire il 40 per cento dell’export italiano) e del resto della Ue (che assorbe un altro 10 per cento). Anche l’apprezzamento dell’euro del 2018 rispetto al 2017 (pari al 7 per cento nei primi nove mesi dell’anno) può avere pesato sulla dinamica dei volumi esportati fuori dall’Eurozona.
Ma l’esame di qualche figura indica che la recessione italiana non è tutta colpa degli altri paesi o governi italiani, ma sembra essere trainato da un forte peggioramento delle aspettative delle imprese e da un parallelo calo degli investimenti (oltre degli acquisti di beni durevoli delle famiglie). I dati mostrano un’elevata correlazione simultanea tra l’evoluzione della crescita del Pil trimestrale e gli indicatori di fiducia delle imprese. Nella figura 1 si vede l’indice di fiducia delle imprese calcolato dall’Istat. Nella figura 2 è riportato l’indice Pmi calcolato dalla società Markit dalle interviste con i responsabili degli acquisti aziendali. Tutti e due gli indici mostrano un’elevata correlazione più o meno contemporanea (nel caso del Pmi, lievemente anticipata) tra quanto avviene al Pil e la fiducia delle imprese.
Figura 1 – Crescita del Pil e indice di fiducia delle imprese
Figura 2 – Crescita del Pil e Pmi di Markit per l’intera economia
Infine la figura 3 mostra come la fiducia delle famiglie abbia retto meglio rispetto a quella delle imprese. La ragione è che la fiducia delle famiglie è – come indica il grafico – fortemente correlata con l’andamento della disoccupazione (che rispecchia la crescita passata, non quella attuale).
Figura 3 – Fiducia delle famiglie e tasso di disoccupazione
Cosa è successo in questo periodo agli investimenti aziendali e alla spesa per le famiglie in beni durevoli, le due voci più direttamente connesse con gli indici di fiducia? Sul fronte della spesa delle famiglie (il 60 per cento del Pil italiano) i dati indicano un calo del consumo di beni, durevoli e non durevoli. Il calo dei beni non durevoli – pari a meno 0,5 per cento su base annua nei primi nove mesi del 2018 – è la prosecuzione di una tendenza strutturale in atto da tempo: durante la ripresa 2015-17 si è registrato un modesto +0,7 per cento annuo. Invece la recente brusca frenata del consumo di beni durevoli (+1,6 per cento su base annua, -0,1 per cento sul trimestre precedente) contrasta nettamente con la loro eccellente performance dei tre anni precedenti (+6,4 per cento annuo nel 2015-17). Lo stesso vale per gli acquisti di mezzi di trasporto aziendali – in crescita a doppia cifra nel 2015-17 – i cui acquisti si sono fermati nel terzo trimestre 2018, facendo scendere il dato annuo a un +18 per cento.
È possibile che una parte di questo brusco rallentamento sia il risultato dell’esaurimento degli acquisti di rimpiazzo di alcuni beni durevoli come le automobili (la parte del leone del mercato in un mercato maturo come l’Italia). Ma è improbabile che tale esaurimento e il correlato ridimensionamento della crescita dei beni durevoli sia avvenuto in modo così drastico in un solo trimestre. A cavallo tra il terzo e il quarto trimestre, invece, c’è stata una rilevante novità, cioè la presentazione di un disegno di legge di bilancio che, almeno fino a Natale, è stato male accolto dall’Europa e dai mercati. Durante questo periodo di tempo lo spread è salito a un massimo di 350 punti base e il Ftse-Mib (l’indice della borsa italiana) è sceso dal valore “estivo” di 22 mila a un deludente 18 mila a fine anno (-18,2 per cento).
E ora che succede?
Sempre ad Assolombarda Giuseppe Conte ha parlato del futuro, che è poi quello che conta ora: “Se nei primi mesi di quest’anno stenteremo, ci sono tutti gli elementi per sperare in un riscatto, di ripartire con il nostro entusiasmo, soprattutto nel secondo semestre”. A documentazione delle affermazioni del premier, “fonti di Palazzo Chigi” hanno fatto sapere che “la manovra è entrata in vigore meno di un mese fa. Reddito di cittadinanza e quota 100 produrranno i loro effetti da aprile. È evidente a chiunque che la recessione tecnica del terzo e quarto trimestre 2018 è il risultato di fallimenti del passato”. E sottolineano: “Noi siamo qui per invertire la rotta, e lo stiamo facendo”.
In effetti, mentre la congiuntura internazionale rimane nuvolosa, almeno la versione finale della legge di bilancio 2019 frettolosamente rabberciata a fine anno ha tranquillizzato i mercati e l’Europa. Udite, udite: il bilancio 2019 prevede un andamento decrescente del deficit negli anni a venire (2 per cento per il 2019, 1,8 per il 2020 e 1,5 per il 2021): una cosa che forse neanche Padoan avrebbe scritto così in un periodo di recessione! Un’assunzione di responsabilità fiscale (solo sussurrata sui social network) che comunque arriva troppo tardi per aggiustare i dati 2018, ma in tempo per un buon inizio d’anno sia in Borsa che sul mercato dei titoli pubblici: lo spread è ritornato a 250 già a fine anno mentre in gennaio la Borsa ha fatto segnare un bel +10,5 per cento. Il cambio di rotta verso un maggiore rispetto delle compatibilità macroeconomiche così odiate da Lega e M5s quando erano all’opposizione sembra dunque avere un dividendo sui mercati. Come indicato nella figura 2, anche l’indice Pmi che misura la fiducia dei responsabili degli acquisti ha svoltato in su nel mese di dicembre. Una rondine non fa primavera, ma l’evidenza di un segno più dopo tanti mesi di segni meno è di buon auspicio. È quindi possibile che almeno la parte dei venti recessivi che il governo italiano ha autoinflitto all’Italia nei mesi precedenti sia in fase di riassorbimento. Rimane la componente internazionale che è largamente fuori del controllo dell’Italia. Ma riuscire nell’impresa di non infliggerci altro malessere economico da soli sarebbe già un grande risultato per affrontare le sfide dei mesi che vengono.
Fonte: lavoce.info
Francesco Daveri è Professor of Macroeconomic Practice alla School of Management dell’Università Bocconi, dove insegna Macroeconomics, Global Scenarios ed è direttore del Full-Time MBA. Ha insegnato in varie università come l’Università Cattolica (sede di Piacenza), Parma, Brescia, Monaco e Lugano. Ha svolto attività di consulenza presso il Ministero dell’Economia, la World Bank, la Commissione Europea e il Parlamento Europeo. Le sue ricerche si concentrano sulla relazione tra le riforme economiche, l’adozione delle nuove tecnologie e l’andamento della produttività aziendale e settoriale in Italia, Europa e Stati Uniti. Scrive commenti sul Corriere della Sera e fa parte del comitato di redazione de lavoce.info. Segui @fdaveri su Twitter oppure su Facebook