L’invecchiamento della popolazione, con l’immigrazione, è il tratto distintivo della grande trasformazione demografica intervenuta in Italia negli ultimi trenta anni.
L’invecchiamento, associato alla modifica della composizione della famiglia e al suo restringimento, ha provocato una crescente domanda di protezione e di cambiamento-adeguamento del modello sociale, che non ha ancora trovato una risposta compiuta. E nei prossimi cinquanta anni le proiezioni di lungo termine MEF-RGS ci dicono che la popolazione anziana raddoppierà (e gli ultra 85enni triplicheranno).
L’allungamento della speranza di vita per milioni di persone, di per sé un indicatore positivo, si è però accompagnato, in Italia più che altrove, ad un aumento delle persone in condizione di non autosufficienza. In sostanza da noi si vive più a lungo rispetto ad altri Paesi nel mondo ma si vive peggio (si veda il Rapporto OECD Health at a Glance 2018).
L’Istat nel 2018 stima in più di 3 milioni le persone in condizioni di disabilità, un numero che cresce se si considerano tutti coloro che hanno bisogno di un qualche aiuto per soddisfare le necessità della vita quotidiana. La situazione riguarda soprattutto le persone anziane, ma non solo, ed ha esposto in particolare le donne ad un sovraccarico nella cura delle persone più fragili, ostacolando il loro ingresso, e peggiorando le loro condizioni, nel mercato del lavoro.
Di fronte a questa crescente domanda di welfare per la non autosufficienza (che ha bisogno di prevenzione, di misure sanitarie, di interventi in campo sociale, abitativo, di organizzazione delle città, di misure nel lavoro per la conciliazione, ecc.) le politiche pubbliche sono state deboli se non assenti.
Il mercato si è mosso più velocemente dello Stato, offrendo alcune soluzioni (polizze assicurative per la non autosufficienza, assistenza privata, ausili per la mobilità e persino con la domotica) ma, ovviamente, per sua natura seleziona e soddisfa i clienti in base al loro reddito e non ai loro bisogni. Si è formato, e quindi sviluppato, un vero e proprio sistema di welfare privato a carico dei cittadini singoli e delle famiglie. Un sistema centrato sulla domanda di lavoro domestico e di cura, che in pochi anni ha avuto un’impennata, passando dai 270mila addetti del 2001 ai quasi 900mila addetti tra Colf e Badanti censiti come lavoratori regolari dal’Inps nel 2016.
Sappiamo però che si tratta di un segmento del mercato del lavoro caratterizzato in prevalenza da lavoratrici immigrate (anche se durante la crisi è aumentata la componente italiana), spesso prive di tutele adeguate. E infatti, considerando la quota di lavoro irregolare, si calcola che siano almeno 1,5 milioni gli addetti al lavoro domestico – di cura. Inoltre, anche laddove si applica lavoro regolare, nonostante i miglioramenti introdotti dai Contratti Collettivi che hanno riconosciuto e regolato questi rapporti, i dipendenti si trovano in condizioni di estrema debolezza e il lavoro è molto, molto gravoso. La peculiarità di questo settore di mercato del lavoro è che la debolezza dei dipendenti si confronta con la situazione di estrema fragilità delle persone che devono accudire (bambini o anziani non autosufficienti). E con le limitate disponibilità economiche dei datori di lavoro, che non assumono dipendenti per svolgere attività di impresa ma per necessità assistenziali.
Di fronte a questo peculiare rapporto tra domanda e offerta di lavoro domestico – di cura, il Sindacato (la Cgil, lo Spi e la Filcams che rappresentano e tutelano queste persone) ha organizzato, e sta organizzando, possibili soluzioni per migliorare le condizioni delle lavoratrici e dei lavoratori e contemporaneamente i diritti delle persone che vengono da loro accudite. Si tratta di un’azione sindacale, già avviata in molti territori, per armonizzare la tutela collettiva e individuale rivolta a lavoratrici e lavoratori con i servizi che rivolgiamo ai loro “datori di lavoro” (spesso iscritti allo stesso sindacato!). Per un sindacato è un’attività delicatissima, perché, pur distinguendo i diversi ruoli, riconosce e si preoccupa dei diritti e delle difficoltà di entrambi i soggetti: lavoratore e datore.
La scommessa (e l’esperienza sembra dimostrarlo) è favorire un miglioramento delle loro condizioni, e anche per questa via rendere conveniente il lavoro regolare, proprio tenendo conto che molto spesso si tratta di “attori fragili”. Ma è evidente che un lavoro di tutela e di rappresentanza sindacale è assolutamente insufficiente a garantire tutele e diritti.
Non può essere che continui ad essere la risposta spontanea delle famiglie, di fronte alla pressoché totale assenza del welfare pubblico, la via per assicurare assistenza alle persone non autosufficienti.
Oggi infatti il welfare pubblico interviene, solo o quasi, con misure monetarie e con la sanità, e prevalentemente con ricoveri in strutture. Il diritto a restare nel proprio ambiente di vita, a casa propria, è quasi sempre affrontato dalle famiglie, con le badanti appunto.
Di fronte ad una spesa per le Cure a Lungo Termine (LTC), stimata dal MEF-RGS in circa 25 miliardi (l’1,7% del PIL: il 40% è spesa sanitaria, il 60% spesa sociale, di cui per bel l’80% come trasferimenti monetari) il fondo nazionale per la NA è appena di 500 milioni.
Mentre i cittadini e le famiglie, con il lavoro domestico o pagando le rette nelle strutture di ricovero, si caricano il grosso della spesa sociale. In assenza di politiche nazionali organiche ed esplicite per la non autosufficienza (e in assenza dei Livelli Essenziali per il Sociale) alcune regioni hanno approvato leggi, piani e fondi per la non autosufficienza e perfino tentato di regolare la presenza del lavoro domestico-di cura.
In questa situazione, avverte il NNA – Network Non Autosufficienza – “il rischio di povertà, …, non colpisce indistintamente la popolazione anziana ma, al suo interno, si rivolge in modo particolare ai non autosufficienti ed alle rispettive famiglie: in questo gruppo tale rischio è aumentato in misura significativa rispetto a prima della crisi”.
Per queste ragioni, i Sindacati dei Pensionati e le Confederazioni hanno deciso di rilanciare una vertenza per riportare al centro dell’agenda politica la questione della Non Autosufficienza (e quindi dell’Autosufficienza!).
Cuore di questa vertenza è un nuovo disegno di legge, che aggiorni e arricchisca quello di iniziativa popolare presentato nel 2006 dopo aver raccolto milioni di firme. Una simile vertenza, che riguarda tutto il nostro Paese, può vivere se nei territori il sindacato riuscirà a organizzare una vera e propria mobilitazione sociale, capace di restituire voce a milioni di persone, a partire da quelle più fragili.
Fonte: ABITARE E ANZIANI