La popolocrazia e l’ossimoro di un populismo di sinistra. di Michele Prospero

Il testo è la sintesi dell’articolo pubblicato nel n. 2 2018 di Rps e scaricabile dagli abbonati nella versione integrale al link:

https://www.ediesseonline.it/wp-content/uploads/2018/11/18prospero.pdf

Con la parvenza di una “popolocrazia”, i movimenti populisti in realtà continuano, con la mistica della sovranità illimitata di un popolo apparente, i processi di espropriazione dei poteri costituzionali del popolo reale. Un non-partito che conquista il governo e conserva l’ossatura di movimento per non alterare la conduzione aziendale si rivela uno strumento di conquista e gestione del potere sensibile all’interesse particolare di un gruppo economico tramite la copertura ideologica della democrazia diretta. Non esistono organi di partito distinti dall’azienda che in nome del popolo controlla il governo attraverso reti di fedeltà, nell’associazione non si svolgono opere di proselitismo per non disturbare il controllo della piattaforma.

Non è il carisma personale di Grillo, “garante” del movimento, la fonte di legittimità o il grado di influenza del capo politico (figura d’ascendenze verbali risalenti al Ventennio) ma la struttura proprietaria che seleziona le candidature, condiziona le nomine, distribuisce incentivi di carriera. Il mito della partecipazione continua si converte nella realtà della delega cieca a occulti poteri di cui sfuggono le consuetudini con po-tentati anche internazionali. I deputati-cittadini senza storia, cultura, legami reali con la società tramutano il partito della rete in partito caserma che minaccia, espelle, controlla, interferisce.

Nessun congresso, nessuna discussione del programma, nessuna scuola di formazione politica o valutazione pubblica dell’indirizzo politico perché i riti della vecchia politica minacciano la linea di comando che assegna all’azienda il potere di vedere, correggere, revocare. L’azienda comanda e la linea proprietaria esprime la continuità della vicenda politica più del capo politico che nella sua dimensione di uomo normale, molto normale, è ben lontano dalla figura d’eccezione cui si riconosce una grazia carismatica. Un’azienda che innesca un fenomeno carismatico attraverso un capo dal tratto del tutto ordinario (un cesarismo senza Cesare, come diceva Gramsci) e parlamentari estratti dal catalogo del cittadino normale appartiene al campo dell’irrazionale che in certe fasi penetra nella politica inducendo a spacciare un organismo padronale-proprietario per comunità morale che merita un’organizzazione monolitica.

Dal ribellismo veicolato attraverso il marketing della rabbia, è scaturito un personale politico, con rivalità tra secche di intransigenti e branche di opportunisti, cenni di classe politica, che non segue la via della istituzionalizzazione. I dissensi di solito rifluiscono dinanzi al capo (non quello politico ma aziendale). Un non-partito a carisma aziendale, non personale, che assorbe funzioni di direzione sganciandole da centri autonomi di elaborazione e discussione, dai luoghi di decisione. L’aziendalizzazione del potere, con la maschera totalizzante dell’ideologia della democrazia diretta, con mobilitazioni senza organizzazione, definisce un fenomeno carismatico non personalizzato ma riconducibile alla gerarchia d’impresa che inibi-sce il cesarismo come attributo di un capo politico. Il M5S è un fenomeno ambiguo, con una azienda-movimento provvista di carisma (tramite il cervello politico della piattaforma sollecita momenti di mobilitazione verticale) che confida sulla socializzazione di una mentalità antipolitica, sulla appartenenza di una porzione di fedeli integralista e ai limiti dell’intolleranza. Il mito della rigenerazione anti-politica diffonde tra i credenti slancio, aspettativa del miracolo, fiducia nella realizzazione dell’impossibile, nuove figure dell’irrazionale. Con la sua ideologia anti-ideologica, con il suo partito antipartito, con il suo primato anti-politico della politica, il movimento conquista il potere con la promessa esplicita di una (non tanto) lontana estinzione del parlamento, dei partiti, della rappresentanza, dell’autonomia delle competenze.

Il M5S è un movimento con aspirazioni totali (da regime, appunto) che contano come una piccola religione politica, anche se non sono realizzate: mito della democrazia diretta, dissoluzione della forma rappresentativa, liquidazione delle organizzazioni e dei riti deliberativi della vecchia poli-tica, politicizzazione integrale nelle espressioni della post-politica che ri-conduce ogni cosa alla finzione originaria di un popolo omogeneo. Può un’azienda priva di una oligarchia riconosciuta funzionare a lungo come surrogato di legittimità, come centro di influenza e distribuzione di incentivi, come ente che monopolizza la selezione e la continuità dell’esperienza politica? Sinora la Casaleggio è riuscita a combinare controllo dall’alto e attivazione di pseudo eventi dal basso, a riconoscere all’azienda funzioni dirigenti che altrimenti spetterebbero alle strutture di un partito. Evoluzioni della vicenda potrebbero scaturire dalla tensione tra gli embrioni di oligarchie e di gruppi dirigenti emersi nella pratica di governo e sedi aziendali di direzione. Sommovimenti, o adeguamenti, potrebbero scaturire dalla necessità dell’azienda di politicizzare, senza evolvere verso la forma-partito, la sua dinamica decisionale per non apparire la prosecuzione del tradizionale conflitto di interesse tra legge e ambizione del partito di una micro-impresa.

Da un intreccio di affari e potere si potrebbe anche uscire con la sconfitta sul piano elettorale che espelle l’azienda dal governo e sfalda il fragile equilibrio tra autocrazia d’impresa, attivisti e oligarchia dei nominati. In attesa che si compia il destino dell’autodistruzione (esprimere un partito con regole, quadri, programma) o dell’abbattimento per causa esterna (fallimento del populismo-governo), il M5S deve convivere tra antipolitica e crescita di un personale a suo modo burocratico-amministrativo, tra identificazione con i ruoli di governo e i miti antipolitici. O il consolida-mento di una cerchia di homines novi che vive di politica liquida l’azienda o lo strapotere dell’azienda sterilizza il ceto politico del non-partito-aziendale di massa. Senza l’iniziativa politica e sociale comunque non si scioglie il mistero della popolocrazia dietro la quale si struttura il nodo di un’azienda della rete che promuove una rete-partito che persegue interessi della rete-azienda nella sfera pubblica privatizzata.

 

Michele Prospero è professore di Filosofia politica presso la Facoltà di Scienze politiche Sociologia e Comunicazione della «Sapienza», Università di Roma.

Print Friendly, PDF & Email