… in discussione (si fa per dire) alla Camera la manovra finanziaria per l’anno 2019. Dopo l’approvazione al Senato, nella notte fra il 22 ed il 23 dicembre, si sono levate delle voci di dissenso sul merito dei provvedimenti, ma ormai non ci sono più i margini di tempo per correggere le numerose storture che stanno emergendo dalla lettura del testo, che è stato consegnato nella versione finale ai senatori (e quindi reso pubblico) soltanto nel tardo pomeriggio del 22 dicembre.
Il 23 dicembre i sindacati confederali hanno emesso una attonita nota congiunta, dolendosi, innanzi tutto, che il maxiemendamento approvato nella notte con voto di fiducia al Senato «per le modalità della sua approvazione, rappresenta una grave lesione alla democrazia parlamentare». Così prosegue il comunicato: «Una legge di bilancio sbagliata, miope, recessiva, che taglia ulteriormente su crescita e sviluppo, lavoro e pensioni, coesione e investimenti produttivi, negando al Paese, e in particolare alle sue aree più deboli, una prospettiva di rilancio economico e sociale». Osservano ancora i sindacati che «le risorse per gli investimenti – già limitate ‒ sono drasticamente ridotte, bloccando così gli interventi in infrastrutture materiali e sociali ‒a partire da sanità e istruzione ‒ necessaria leva per la creazione di lavoro, la crescita e la coesione sociale territoriale. Si fa cassa con il taglio dell’adeguamento all’inflazione per le pensioni sopra i 1522 euro lordi al mese, il blocco delle assunzioni nella pubblica amministrazione fino a novembre […]. Nessuna risposta sugli ammortizzatori e neppure sul versante fiscale per lavoratori e pensionati dove invece si sceglie di introdurre la flat-tax e nuovi condoni». Quindi i sindacati preannunciano «l’apertura di una stagione di mobilitazione e di lotta nelle categorie e sui territori che culminerà con una grande manifestazione nazionale unitaria a gennaio».
Indubbiamente i sindacati (e molte altre realtà sociali) hanno valide ragioni per dolersi, ma le proteste successive all’approvazione della finanziaria suonano come il tentativo di chiudere la stalla dopo che i buoi sono scappati.
Nella democrazia parlamentare non succede così. I provvedimenti che riguardano il bilancio, le tasse, la distribuzione delle risorse, gli investimenti vengono depositati in Parlamento e devono essere passati ai raggi x dalle Commissioni parlamentari, prima di approdare in aula per la votazione. Durante questo percorso i soggetti sociali interessati, i sindacati, le categorie, le realtà territoriali interloquiscono con i rappresentanti del popolo e suggeriscono modifiche o palesano dissenso, evidenziando le ragioni per cui certi provvedimenti appaiono inaccettabili. Il Parlamento, di norma, dialoga con il popolo ed esercita il suo potere di emendamento. Tuttavia, poiché quest’anno è stata presentata la manovra del popolo, questo dialogo fra il Governo ed il Parlamento e fra il Parlamento ed il popolo non è stato ritenuto necessario.
La manovra finanziaria consta sostanzialmente di un solo articolo diviso in 1.143 commi. Se ci fosse stato il tempo di leggerli e di discuterli pubblicamente forse non si sarebbe andati a un’approvazione a scatola chiusa e al buio ed alcune storture si sarebbero potute evitare, senza sottoporre al voto definitivo della Camera un testo con promessa di cambiamento alla prima occasione utile (sic!).
Ma in questo caso qualcuno avrebbe dovuto spiegare la ragione della norma che cancella l’Ires agevolata (portandola dall’attuale 12 per cento al 24 per cento) per istituti di assistenza sociale, fondazioni, enti ospedalieri, istituti di istruzione senza scopo di lucro. Una sorta di patrimoniale sulla solidarietà, che punisce la Comunità di S. Egidio, le Misericordie e tutti gli altri enti che svolgono attività volte ad alleviare la povertà. O avrebbe dovuto spiegare il senso delle nuove regole che consentono agli enti locali l’affidamento diretto e senza gara per gli appalti fino a 150.000 euro, facendo sì che nel prossimo anno oltre sei miliardi di denaro pubblico saranno spesi senza controllo.
Invece non c’è bisogno di alcuna spiegazione per i tagli al fondo del pluralismo che colpiscono un comparto, quello dell’informazione, già debole, spostando le residue risorse a un fondo a disposizione della Presidenza del Consiglio che verrà gestito nella più totale discrezionalità. Saranno colpite le piccole realtà editoriali, quelle che assicurano voce alle minoranze e ai territori e tanto fastidio danno con le loro critiche al Governo del popolo. Ha osservato il direttore di Avvenire, Marco Tarquinio: «Non abbiamo semplicemente la prova del delitto, abbiamo la pistola fumante».
FONTE: VOLERELALUNA