Disuguaglianze di genere nel mercato del lavoro: l’impatto del Bonus Infanzia e del congedo di paternità. di Enrica Maria Martino

Le disuguaglianze di genere sul mercato del lavoro, in termini sia di divari retributivi che di partecipazione e occupazione, continuano ad essere significative nella maggior parte delle economie avanzate. La letteratura economica più recente ha identificato nella genitorialità, e nell’impatto diseguale che la nascita di un figlio ha sui comportamenti e sulle prospettive di carriera di uomini e donne, una delle cause principali per la persistenza di tali disuguaglianze. Analisi condotte su diversi paesi, infatti, mostrano che la nascita di un figlio apre un divario significativo e duraturo fra le retribuzioni dei coniugi, contribuendo ad un aumento permanente del gender gap; tale divario è dovuto ad un crollo del profilo retributivo della donna rispetto all’andamento potenziale che avrebbe seguito in assenza della nascita del figlio. Stime su dati danesi suggeriscono che la quota del gender pay gap totale spiegata dall’effetto negativo della nascita di un figlio sulle prospettive di carriera della madre sia costantemente cresciuta negli ultimi decenni, a fronte della riduzione dell’importanza relativa di altri fattori.

Le disparità di genere sul mercato del lavoro sono particolarmente forti in Italia, dove, se da una parte il tasso di occupazione femminile è in costante aumento, l’occupazione delle donne in coppia con figli resta bassa e al di sotto della media europea. La nascita di un figlio, in-fatti, determina in molti casi l’uscita della donna dal mercato del lavo-ro, spesso in modo permanente.

Anche nel caso in cui la donna continui a lavorare, ciò si traduce in un aumento del carico di lavoro totale, sommando le ore dedicate al lavoro retribuito e quelle dedicate al lavoro familiare, dal momento la responsabilità del lavoro domestico e della cura dei figli restano a carico della donna, secondo un modello tradizionale di divisione dei ruoli all’interno della coppia.

Le politiche familiari possono intervenire cercando di modificare i comportamenti individuali, incoraggiare l’offerta di lavoro femminile e rendere più semplice la conciliazione dei tempi di vita e di lavoro. La letteratura economica empirica ha investigato l’effetto di diverse misure, partendo dalle riforme e dalle esperienze normative di diversi paesi. Numerose ricerche identificano nella maggiore offerta di asili nido e di servizi per la prima infanzia uno strumento efficace per aumentare l’offerta di lavoro delle donne, facilitandone il rientro dopo la nascita del figlio; la disponibilità di posti, il costo, la flessibilità oraria e la qualità dei servizi sembrano essere elementi rilevanti per il successo di tali interventi.

La disponibilità di periodi di congedo retribuiti consente alla madre di prendersi cura del figlio nei mesi successivi al parto, tutelandone il posto di lavoro. Gli argomenti contrari a congedi parentali troppo lunghi derivano in parte dalla letteratura economica che sottolinea il rischio di deprezzamento del capitale umano della donna, la perdita in termini di esperienza lavorativa e dunque il rischio di prospettive di carriera peggiori quanto più è lungo il periodo di astensione dal lavo-ro; inoltre, incoraggiare lunghi periodi in cui la cura del figlio è responsabilità esclusiva della madre comporterebbe una specializzazione tale che la condivisione della cura nei mesi successivi sarebbe inefficiente e difficilmente ricercata dai coniugi.

La letteratura empirica che ha investigato l’effetto di riforme che han-no modificato la durata e la generosità dei congedi, ha stimato un’alta elasticità dell’offerta di lavoro delle madri nel breve periodo; nessuno studio riscontra però effetti negativi di lungo periodo, in termini di offerta di lavoro e retribuzioni.

Per quanto riguarda l’incoraggiamento di modelli di genitorialità più condivisa, destinare parte del congedo parentale ad uso esclusivo del padre, incentivare l’uso più equilibrato da parte dei genitori dei periodi di congedo accessibili ad entrambi i coniugi e introdurre congedi di paternità obbligatori rappresentano misure efficaci per incoraggiare una più equa distribuzione del carico familiare, promuovendo una cultura più paritaria di condivisione della genitorialità; studi precedenti che hanno esplorato l’effetto di tali misure in diversi paesi europei non hanno trovato effetti negativi sull’offerta di lavoro e sulle retribuzioni successive dei padri che hanno aumentato la loro presenza in casa.

In Italia, il congedo facoltativo è ancora prevalentemente utilizzato dalle madri, nonostante un costante aumento della quota di beneficiari uomini. L’introduzione, nel 2012, del congedo obbligatorio di paternità non ha, per ora, avuto effetti positivi rispetto ad incoraggiare «una maggiore condivisione dei compiti di cura», come si proponeva la legge. Da una parte, il numero di domande risulta notevolmente inferiore a quello della platea di potenziali beneficiari, mostrando una scarsa adesione alla misura, probabilmente dovuta a scarsa informazione, resistenze culturali e mancato monitoraggio dell’applicazione della legge. Inoltre, la durata del congedo di paternità era di un solo giorno nel 2013, aumentati poi a due giorni nel 2016 ed infine a quattro a partire dal 2018; probabilmente la previsione iniziale era troppo limitata per poter ottenere effetti positivi al di fuori del ristretto ambi-to di applicazione.

Nel 2012 è stato introdotto anche il Bonus Infanzia, un sussidio mensile per fare fronte alla spese legate alla cura del bambino (pagamento di baby sitter o strutture eroganti servizi di cura, pubbliche o private convenzionate). La madre poteva chiedere il sussidio per tanti mesi quanti i mesi di congedo parentale pagato cui accettava di rinunciare; la misura intendeva dunque incentivare il rientro più rapido delle madri sul lavoro, al termine del congedo obbligatorio di maternità, sostenendo le famiglie nelle spese di cura. L’utilizzo del Bonus non sembra apportare benefici di medio periodo alle madri che ne hanno usu-fruito, né in termini di maggiore offerta di lavoro né di migliori profili retributivi. D’altra parte, l’analisi suggerisce che il Bonus abbia un effetto positivo sull’offerta di lavoro al margine estensivo, incoraggiando un rientro al lavoro più rapido e più stabile delle donne che non ne fanno uso.

Enrica Maria Martino è postdoctoral researcher all’Ined di Parigi.

 Il testo è la sintesi dell’articolo pubblicato nella sezione Tema del n. 1 2018 di Rps e scaricabile dagli abbonati nella versione integrale al link RPS LA RIVISTA DELLE POLITICHE SOCIALE: n. 1/2018 Che “genere” di welfare

 

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